The Hateful Eight **
L’ottavo film di Quentin Tarantino è un sanguinario western invernale, che si pone come seguito ideale del precedente Django Unchained.
Ambientato nel Wyoming sommerso dalla neve, alla fine dell’Ottocento, The Hateful Eight respira l’odio irrisolto della Guerra Civile: la questione razziale è ancora una volta al centro della scena e una lettera personale del presidente Lincoln diventa uno degli elementi essenziali del contesto, in cui si svolge il lungo racconto.
Tarantino questa volta ha deciso di riesumare le grandi macchine da presa a 65mm della Panavision, per girare un film quasi tutto di interni, con la grandiosità dei vecchi kolossal degli anni ’50. E’ riuscito poi finalmente a coinvolgere anche Ennio Morricone che gli ha regalato una partitura formidabile e inquietante, pescando anche nelle musiche non utilizzate, scritte nel 1980 per La cosa di Carpenter.
The Hateful Eight però è al di sotto dei suoi consueti standard e l’ombra del manierismo, che già si affacciava prepotente nella seconda parte di Django, qui si fa ancora più lunga.
Sull’ultima diligenza per Red Rock, il cacciatore di taglie John Ruth, sta trasportando la prigioniera Daisy Domergue perchè venga processata e impiccata per i suoi crimini.
Sulla loro strada incontrano prima il Maggiore Marquis Warren, soldato dell’esercito nordista e poi famoso bounty hunter, quindi Chris Mannix, un rinnegato dell’esercito sudista, che sostiene di essere il nuovo sceriffo della città.
Il maggiore Warren trasporta i corpi di tre fuorilegge da consegnare a Red Rock per la taglia. Le sue imprese, durante e dopo la Guerra di Secessione, sono ben note a John Ruth ed a Chris Mannix.
La diligenza si inerpica sulle montagne, cercando di evitare una tempesta imminente: il curioso quartetto decide di fermarsi per la notte nel rifugio di Minnie’s Haberdashery.
Qui però non trovano nè Minnie, nè il marito, ma un quartetto di sconosciuti: Mexican Bob, che afferma di essere il tenutario, in assenza della proprietaria, il cowboy John Cage, il Generale sudista Sanford Smithers e l’inglese Oswaldo Mobray, il boia di Red Rock.
Nella lunga notte insieme, verità e menzogne si confronteranno senza sosta, mentre l’odio e la ferocia, che covano sotto traccia, avranno il loro tributo di sangue.
Tarantino divide il racconto in sei capitoli, i primi tre sono dedicati all’incontro tra i personaggi ed al loro arrivo da Minnie’s, il quarto si apre con la voce off dello stesso regista, che introduce un punto di vista diverso sugli eventi, mentre il quinto è un lungo flashback ed il sesto rappresenta la conclusione della storia.
Il film è a sua volta diviso evidentemente a metà: nella prima parte sono le parole a ferire, nella seconda invece il sangue scorre e schizza con una ferocia brutale.
Sempre più innamorato della sua abilità di scrittore, Tarantino si perde in un lunghissimo preambolo di infinite chiacchiere tra i quattro personaggi che affollano la diligenza per Red Rock. L’intenzione è quella di consentire al sottotesto politico del film di emergere, ma il risultato è quello di chi si trovi ad ascoltare una conversazione tra i viaggiatori di un treno: per un po’ il voyerismo e la curiosità ci spingono a prestare attenzione, poi se le chiacchiere vanno per il lungo, ci si distrae, si perde interesse.
Accade lo stesso in The Hateful Eight: alla lunga i dialoghi passano in sordina, le immagini non sono particolarmente suggestive, nonostante l’ottimo lavoro di Robert Richardson e ci si ritrova a chiedersi con sgomento se questa volta Tarantino non abbia davvero esagerato.
Il problema è che The Hateful Eight, nonostate la battaglia per il cinema in pellicola ed il 70mm, è un film piccolo piccolo, che sembra quasi la ripresa di uno spettacolo teatrale.
Non c’è mai uno scarto di regia, mai una sola idea su come utilizzare davvero quelle enormi macchine da presa Panavision.
C’è una clamorosa mancanza di idee nella sua messa in scena: il segno evidente è l’uso del tutto pretestuoso e ingiustificato della voce fuori campo, che interviene a tre quarti del film, per spiegare quello che si poteva benissimo mostrare. Il flashback che segue è altrettanto inutile e prelude ad un finale dove c’è più sangue che nella Carrie di De Palma.
Ma non basta la carneficina: il film manca completamente di un centro emotivo, se non di un punto di vista morale. Gli otto pieni d’odio non hanno vendette personali o motivi particolari, agiscono semplicemente mettendo mano alla fondina. Tutto qui. E’ un riflesso pavloviano, non particolarmente interessante.
Tutto il discorso politico della prima metà si dissolve improvvisamente in un bagno di sangue senza fine, in cui l’istinto di morte prevale su tutto.
Nel ricchissimo cast non ci sono performance particolarmente ispirate. Samuel L. Jackson ha il personaggio più grande, ma si limita a fare il “bad motherfucker” che gli riesce così bene, fin dai tempi di Pulp Fiction, Tim Roth fa il verso agli accenti di Christoph Waltz e Jennifer Jason Leigh, pesta e coi denti rotti per quasi tutto il film, dà tutto quello che può, ma il suo personaggio è una sorta di Macguffin, con poco spessore. Sorprendentemente è il caratterista Walton Goggins, nei panni dello sceriffo Chris Mannix, a risultare alla fine uno dei più convincenti del gruppo.
Lontanissimo dallo sguardo democratico di Ford o dal revisionismo di Eastwood, così come dall’amarezza della sconfitta di Peckinpah e dello stesso Corbucci o dal senso dello spettacolo esasperato di Leone, Tarantino dimostra, ancora una volta, di non conoscere per nulla il genere che dichiara di amare.
Ce n’eravamo già accorti in Django Unchained, ma qui è ancora più evidente: The Hateful Eight non è un atto d’amore al western, nè una riscrittura dei suoi codici, è semplicemente un pretesto per imbastire un kammerspiel brutale e sadico.
Il film avrebbe potuto essere ambientato dovunque ed in qualsiasi periodo e richiama in modo evidente il giallo a chiave alla Agatha Christie, nonchè il primo film di Tarantino, Le iene, per il doppio contesto claustrofobico in cui si svolge: lì c’erano l’abitacolo dell’auto e il garage, qui la diligenza e il rifugio.
Solo che Le Iene era un capolavoro nell’uso dei tempi della messa in scena, alternando pause ed accelerazioni, tensione spasmodica, flashback e dialoghi surreali: qui tutto invece sembra overcooked, come un piatto di spaghetti ordinato a Little Italy.
Ed è un peccato perchè la riflessione politica è bruciante e attuale e l’immagine del paese diviso, allora come oggi, affonda il bisturi in una delle contraddizioni irrisolte della società americana.
Condivido. Non è un western..ma resta comunque un grande film
È pura sceneggiatura è interaZione.
Il 70mm é frivolo ma nn importa..Basta che
La Kodak ci abbia guadagnato
[…] – 1/7/16] | Marco Albanese @ Stanze di Cinema […]
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