Il padre (The cut)
Guest post di Tommaso Tronconi (www.onestoespietato.com)
Non è il solito Fatih Akin. Il padre (The cut) è un film che fatichiamo a riconoscere come diretto dal regista di Soul Kitchen e La sposa turca. Un’opera che taglia i ponti con tutta la filmografia precedente, magari solo un taglio momentaneo, di quelli che si possono ricucire, ma è un taglio netto.
Lasciata in dispensa la regia al peperoncino a cui ci ha abituato raccontandoci le tragi-comiche (dis)avventure di turchi trapiantati in Germania, Akin si mette alla prova affrontando un gravoso fatto storico: le stragi in Armenia del 1915. Il padre intreccia storia e Storia, quella dei piccoli uomini e quella delle grandi date ed eventi, narrandoci il peregrinare tra i due mondi di un sopravvissuto che abbandona la sua patria in disperata ricerca delle due figlie, della salvezza e di una nuova vita.
Di fronte ad una vicenda così potente, Akin opta, saggiamente, per una regia più classica, sfrondata di ridondanti abbellimenti, ma non per questo meno personale. La fotografia dipinge il quadro dell’immagine come fosse uno spaccato naturalista, intriso di ocra e polvere. E non a caso, alla grande arte dell’Ottocento rimandano le sequenze ambientate nei villaggi armeni sterminati e abbandonati, sequenze che riecheggiano La zattera della Medusa di Gericault e il gusto “espressionista” di Goya.
Il padre è un Akin sgrassato ma allo stesso tempo grandioso, dotato di un respiro profondo ma non epicizzante. Infatti, è “semplicemente” la storia di un fabbro, quindi di un uomo e non di un eroe, interpretato da un Tahar Rahim (Il profeta) preciso e low profile. Il suo personaggio è privato delle corde vocali, non può parlare, e Rahim, senza mai esagerare, è bravo nell’esternare un ampio spettro di sentimenti usando solo il viso e gli occhi.
Insomma, Il padre è un film per tutti, per un pubblico ampio e sfaccettato, poiché è una di quelle storie belle e forti che è doveroso raccontare, ricordare, salvare dall’oblio della Storia che corre sempre più veloce.