Millennium – Uomini che odiano le donne

Millennium – Uomini che odiano le donne ***

David Fincher questa volta si è scelto un compito davvero difficile. Dirigere il remake americano di Uomini che odiano le donne presentava due evidentissime controindicazioni.

La prima è più radicale: il romanzo di Stieg Larsson, da cui è tratta la storia originale, è un bestseller che tutti hanno letto, ma non è un grande romanzo dal punto di vista narrativo. La sua forza risiede essenzialmente nella creazione di un personaggio memorabile, la hacker ed investigatrice Lisbeth Salander. Bisessuale, minuta, con uno stile tra il punk ed il metal, trasandata e trash eppure incredibilmente ambigua, attraente, determinatissima.

La seconda è quella dell’utilità di rifare un film che tutti (tranne gli americani) hanno già visto al cinema o in homevideo negli ultimi due anni. Uomini che odiano le donne di Niels Arden Oplev è uscito nella primavera del 2009, con un notevole successo di pubblico nel mondo. Peraltro l’adattamento era adeguato e persino gli attori scelti non tradivano troppo gli originali: non a caso Noomi Rapace ha avuto da allora una brillante carriera tra Hollywood e la madrepatria (Beyond, Sherlock Holmes – Gioco di Ombre, Prometheus, Passion) e anche Michael Nyqvist ha sfruttato le sue doti di caratterista nel recente Mission: Impossible Protocollo Fantasma.

Affidata la sceneggiatura all’esperto Steven Zaillian (Schindler’s list, Gangs of New York, American Gangster, L’arte di vincere), Scott Rudin e la Sony hanno deciso di coinvolgere Fincher nel progetto, ricreando il team produttivo di The Social Network.

Il risultato è quello che vedrete in sala dal 3 febbraio. Un film glaciale, diretto da un Fincher estremamente professionale, che potrà intrattenere ed incuriosire coloro che non hanno visto l’originale o i fans devoti all’eroina creata da Stieg Larsson.

Il film comincia con Mikael Blomkvist, giornalista investigativo di successo, ma sull’orlo del fallimento, dopo aver perso la causa che lo vede accusato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del finanziere Wennerström.

Per questo motivo decide di dimettersi da direttore della rivista Millennium e di accettare un incarico privato, propostogli dall’avvocato Frode, per conto di Henrik Vanger, il patriarca di una delle famiglie più importanti del paese ed a capo di una dinastia industriale, compromessa con la politica e con il nazismo.

L’anziano Vanger è ossessionato dalla misteriosa scomparsa della nipote Harriet, avvenuta un giorno d’estate di quarant’anni prima. Mikael, malgrado dubiti di riuscire a scoprire qualcosa, a distanza di così tanto tempo, accetta l’incarico e si trasferisce nell’isola di Hedestad. Nonostante l’ostilità apparente degli altri membri della famiglia, Blomqvist riuscirà a fare dei passi avanti grazie ad un’intuizione della figlia ed all’aiuto di una investigatrice sui generis, Lisbeth Salander, la stessa che aveva lavorato sul suo dossier personale, per conto di Frode e Vanger.

Mano a mano che il mistero della scomparsa si chiarisce, la storia restituisce particolari inquietanti. La linea della violenza procede di padre in figlio, in una spirale di misoginia e atrocità.

Le scelte di Zaillian nell’adattare il romanzo originale sono più rispettose, tranne che nel finale, con una diversa soluzione del giallo, legato alla scomparsa di Harriet Vanger.

Qualche inevitabile semplificazione nelle dinamiche familiari dei Vanger è stata necessaria, ma il film, pur lungo oltre due ore e mezza, scorre inesorabile verso un doppio epilogo, che rende giustizia non solo al vecchio patriarca, ma anche alla carriera di Blomkvist.

David Fincher lavora su commissione, ma ha imparato a farlo senza perdere le coordinate del suo cinema: la sequenza dei titoli di testa è angosciante  come un incubo di Lisbeth, nero, infuocato e metallico, con i personaggi che sembrano rinascere come fenici, sulle note di Immigrant Song.

Meraviglioso anche il finale: secco, in campo lungo, che rinnova la durezza del titolo, declinandolo anche a livello sentimentale. In fondo è proprio nell’impossibilità degli affetti, nel ritorno alla solitudine ed all’emarginazione, che si consuma la grande sconfitta della protagonista.

Ovviamente Fincher lavora su un immaginario che conosce bene: ci sono molti richiami alla famiglia disfunzionale di The Game, che i Vanger replicano in grandiosità e superano in crudeltà e misteri.

C’è naturalmente il lavoro investigativo di due outsiders, così come nel mirabile Zodiac, in cui l’ossessione della verità finisce per travolgere le vite di tutti.

Non c’è dubbio che la visione del capitalismo amorale e familiare di Larsson coincida in gran parte con quella del regista di Fight Club, che si trova a suo agio nel rappresentare un sistema corrotto a tutti i livelli, in cui il male ha faccia anonima e perbenista dei figli della buona borghesia e dove la finanza e i capitali si spostano solo con l’inganno.

Daniel Craig interpreta Blomkvist con perfetta misura, nel suo slancio ideale, come nelle sue miserie affettive.

Il cast dei comprimari è di primissimo livello, come si addice ad una mega produzione di un regista idolatrato dai suoi attori.

La fotografia di Jeff Cronenweth (Fight Club, The Social Network) lavora sulle consuete tonalità del giallo e del marrone solo nella parte ambientata a Stoccolma, nei flashback e negli interni della casa del rampollo Martin Vanger, mentre si ammanta di bianco e di grigio desaturato nelle scene ad Hedestad.

Pregevolissimo come sempre lo score di Trent Reznor e Atticus Ross, che restituisce un clima di straniamento e di sospensione, acuito dalle scelte musicali: dai Led Zeppelin ad Enya.

Ma non c’è dubbio che anche in questa seconda trasposizione è il personaggio di Lisbeth Salander ad imporsi, grazie al trasformismo di Rooney Mara ed alla sua interpretazione piena di silenzi esplosivi, esagerati e di gesti che non ammettono rifiuti.

Coinvolta in un tour de force che non le risparmia nulla, tra pestaggi in metropolitana, rapporti orali, scene lesbo ed uno stupro selvaggio, Rooney Mara si reinventa completamente rispetto alla studentessa offesa di The Social Network.

Già Noomi Rapace aveva interpretato la hacker nei tre film svedesi, con notevoli risultati. Rooney Mara la supera per adesione all’originale e per un incredibile equilibrio tra fragilità ed aggressività irrefrenabile, senza mai perdere quella femminilità, continuamente negata e vilipesa.

Fincher ne fa il vero centro del film che rispecchia e replica la Harriett Vanger, scomparsa 40 anni prima: sono due facce della stessa medaglia, naturalmente. La nuova versione trasforma Lisbeth da eroina vendicatrice e mascolina a donna bloccata nella propria adolescenza, che sembra trovare in Mikael qualcuno con cui riuscire finalmente a dialogare. Ma forse è solo un’illusione…

Questo Millennium – Uomini che odiano le donne vale una visione anche solo per la meravigliosa interpretazione di Rooney Mara, giustamente riconosciuta dall’Academy, che l’ha candidata all’Oscar.

Consigliamo però a lei ed a Fincher di astenersi dai prevedibili sequel. Se il primo romanzo di Larsson aveva un’urgenza narrativa ed un intreccio meritevole di trasposizione, gli altri due sono davvero ben poca cosa, come hanno dimostrato già i film svedesi: sarebbe un inutile spreco del loro evidente talento.

9 pensieri riguardo “Millennium – Uomini che odiano le donne”

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