Nella consueta rubrica settimanale sul Corriere, Paolo Meregehtti recensisce il nuovo film di Clint Eastwood J.Edgar, assegnandogli tre stellette.
Mereghetti segnala una nuova svolta nel cinema dell’attore-regista americano, sempre più disilluso dai suoi antieroi e dall’America in cui vivono. Nel gioco dei chiaroscuri, tipico dei suoi ultimi film, qui è l’oscurità a prevalere.
È un film cupo questo J. Edgar. Un film livido, plumbeo, addirittura claustrofobico in certi momenti. È il film di un fallimento e di una sconfitta: non tanto quella del protagonista, già giudicato dalla Storia, ma piuttosto quella dell’America, del Paese e del mito in cui più o meno si era sempre identificato Clint Eastwood. Un’America dura, violenta, ambigua, a volte anche sporca e maleodorante, ma sempre riscattata da un ideale, un sogno, magari un sacrificio capace di redenzione.
Niente riscatta invece questo J. Edgar Hoover, forse paranoico certamente complessato e represso, campione di un mondo che Eastwood non ha mai apprezzato. […] Il potere che si identifica con Hoover… lavora nell’ombra, usa le intercettazioni, legge le lettere altrui, pesca nel torbido. Non ha nemmeno il coraggio dei propri sentimenti.[…]
Il film di Eastwood ne racconta la storia seguendo la strada apparentemente più semplice, quella lasciata dallo stesso Hoover in una «autobiografia» dettata a un giornalista, saltando continuamente tra l’oggi (cioè il 1971/72, i suoi ultimi anni di vita) e lo ieri, dall’inizio degli anni Venti (quando entrò nel Fbi per diventarne il capo nel 1924) ai Trenta (con la caccia ai grandi gangster e il rapimento del figlio di Lindberg) ai decenni successivi, quando anche i presidenti finivano nella rete delle sue spie. […]
Alla fine, quando la versione che Hoover voleva lasciare della sua vita viene contestata dal suo stesso braccio destro, quando la ricostruzione propagandistica lascia il posto a una più credibile (e meno mitologica: la bufala del cavallo bianco…) cronaca fattuale, non possiamo però dire di essere riusciti a scoprire un qualche tipo di verità. Sulla vita di Hoover c’erano ben più numerose indiscrezioni e molte più piccanti rivelazioni. […]
L’idea di un mondo migliore, o almeno di uomini migliori, era quella che fino a ieri guidava le azioni dei suoi eroi solitari, depositari di un qualche tipo di responsabilità. Come quella che i padri sentono di dover avere per i figli, veri o «adottati» che siano. Ma con J. Edgar anche quei sogni scompaiono e lo spettatore-regista non può che trovarsi solo e senza domani in un mondo cupo e buio. Come quello in cui Hoover muoveva le sue spie.