Mereghetti su Miracolo a Le Havre

Al Festival di Cannes la stampa italiana e quella internazionale hanno avuto una evidente folgorazioen per l’ultimo film di Aki Kaurismaki: posto verso la fine del concorso ufficiale, ha finito per mettere d’accordo tutti quelli che erano rimasti più o meno interedetti di fronte a The tree of life, Melancholia, La pelle che abito, This must be the place.

Si tratta però del solito Kaurimaki, lunare e fiabesco, che affronta la realtà con spirito zuccheroso, riducendo il tema dell’immigrazione clandestina e del cancro a pretesti narrativi risolti in chiave miracolistica.

A noi non ha convinto per nulla, anche perchè il modo di girare del regista finlandese non si è mai evoluto negli anni e fa del pauperismo della messa in scena e dell’uso antirealistico delle luci un suo punto d’orgoglio.

Bravissimi i protagonisti, a partire da André Wilms, che riesce davvero, con la sua umanità, a rendere credibile il racconto di Miracolo a Le Havre.

Anche Mereghetti ne è entusiasta: La semplicità è il segno del genio di Aki Kaurismäki. Semplicità come capacità di vedere le cose nella loro verità, nella loro essenzialità, andando al cuore delle questioni e delle persone. Semplicità come (ri)scoperta di un’estetica non contaminata, non post, ma dentro il valore del reale, fatta di colori pieni, di luci dirette, di inquadrature e (scarsi) movimenti di macchina che rimandano sempre a un senso, a un significato. Semplicità come scavalcamento delle giustificazioni, dei distinguo, degli arzigogoli populisti: il protagonista di Miracolo a Le Havre cita (laicissimamente) il «sermone della montagna» ma potrebbe benissimo ricordare anche le parole dell’Apocalisse di Giovanni sul disprezzo per chi non è «né freddo né caldo». La semplicità di Kaurismäki non è mai faciloneria o pressapochismo o l’essere «tiepido» di cui parla appunto l’Apocalisse (oggi si direbbe, con brutto neologismo, cerchiobottismo): è chiarezza e coraggio di scelta. Da che parte stare. Verso chi sentirsi solidali.

[…] invece di raccontare personaggi borghesi (lo ha notato già Emiliano Morreale il rifuggere di Kaurismäki dalla borghesia e «dai suoi dilemmi e dalle sue drammaturgie» compiaciute e autoassolutorie), il film elegge a protagonista il lustrascarpe Marcel Marx (André Wilms), sintesi perfetta di autenticità umana («il lustrascarpe è, con il pastore, il mestiere più vicino al popolo. Sono i soli che rispettano i precetti del Discorso della montagna») …E naturalmente anche sinonimo di un’evidente scelta di classe, visto che vive in un quartiere di emarginati, dove comprare a credito è la norma e «i miracoli non avvengono»

[…] Ogni battuta del dialogo, ogni invenzione della sceneggiatura, ogni risata e ogni momento di commozione rimandano a una scelta di vita, a una filosofia dell’esistenza che solo apparentemente può ricordare lo schematismo delle favole. Quello che invece il regista sa trovare è la semplicità e l’immediatezza delle cose davvero importanti. Dove un ottimismo spudorato è solo l’altra faccia di una commovente e lucidissima lettura del reale, del cinema e della morale.

Pubblicità

E tu, cosa ne pensi?

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.