THIS MUST BE THE PLACE di P.Sorrentino ***
Concorso
Paolo Sorrentino (Le conseguenze dell’amore, Il divo) si conferma narratore raffinato, creatore di personaggi unici, cantore di un’umanita’ senza confini.
Abbandonata la politica italiana, al centro del travolgente film sul divo Giulio Andreotti, nel nuovo This must be the place ci regala il più dolce dei suoi ritratti.
Cheyenne, icona del gothic rock, non suona piu’ dagli anni ottanta, ma continua a vestirsi ed a comportarsi come una star: ma in fondo non è altro che uno dei magnifici perdenti del cinema di Sorrentino, fratello dei Tony Pisapia e di Titta Di Girolamo. Un uomo che vive una vita sbagliata, chiuso dentro se stesso, incapace di esporsi, se non attraverso la maschera che non abbandona mai: capelli neri gonfi, trucco agli occhi, rossetto, abiti neri e anfibi militari.
Ha rinnegato la sua musica ed il suo successo, eppure continua ad indossare i vestiti di scena, non fa piu’ concerti dalla fine degli anni ’80, ma gode ancora i frutti della sua carriera, vivendo in una grande villa in Irlanda, con la moglie Jane, vigile del fuoco e premurosa compagna.
La vita procede tranquilla, nella placida routine della campagna irlandese, con l’unica preoccupazione di come investire i suoi guadagni nel mercato azionario in crisi.
Accoglie sotto la sua ala protettrice la giovanissima Mary, che si veste come lui e rifiuta le timide avances di un bravo ragazzo, che lavora in una caffetteria locale.
La descrizione del piccolo mondo irlandese di Cheyenne e’ la cosa migliore del film ed in fondo si rimpiange che Sorrentino non si sia fermato qui, raccontando meglio la vita di questa strana comunità. Il regista ci conduce con maestria nelle stanze in cui la rockstar sembra sempre fuori posto, ci fa toccare con mano le sue debolezze, le sue incapacita’, le sue paure e ci fa intuire che all’origine del suo improvviso e definitivo ritiro ci sono due ragazzi, che hanno perso la vita molti anni prima.
Improvvisamente pero’ la sua esistenza annoiata viene stravolta dalla morte dell’anziano padre, che vive a New York e che non parla con Cheyenne da almeno 30 anni: da quando il figlio ha cominciato a vestirsi ed a comportarsi in modo eccentrico.
Timoroso dell’aereo, Cheyenne arriva nel nuovomondo a bordo di una nave. Dai diari del padre e dai racconti di un cugino, capisce che il genitore, come molti ebrei scampati all’Olocausto, ha vissuto una vita di rancore e vendetta, ricercando per cinquant’anni il criminale nazista Alois Lange, che lo mise in ridicolo nel campo di Auschwitz.
E’ forse questo il punto debole del film, che finisce per caricare sulle spalle esili di Cheyenne non solo gli spazi infinti della wilderness americana, ma anche la tragedia chiave del Novecento.
Spinto dalla famiglia e dall’incontro con un cacciatore di nazisti, Mordecai Midler, Cheyenne decide di far sua l’ossessione del padre. Preso in prestito un enorme pick up nero si spinge nel cuore d’america alla ricerca dell’aguzzino.
Fa visita alla moglie, quindi alla nipote del criminale, senza pero’ riuscire a trovare il suo rifugio finale, quando, in suo soccorso, giunge proprio Mordecai…
Sorrentino affronta il desiderio di vendetta e l’umiliazione del campo di concentramento, con un pudore e una dignita’ encomiabili, ma c’è una vera necessità narrativa in questo lungo viaggio? O forse non si tratta di un espediente un po’ troppo consumato e di cui non si dovrebbe abusare?
Il viaggio del suo protagonista diventa, come sempre nella tradizione on the road, un percorso di formazione, di cambiamento, di crescita anche per il vecchio musicista.
Cheyenne riuscira’ ad affrontare le sue paure, a superare il suo rifiuto di una figura paterna cosi’ ingombrante, capace di vincolarlo a quel ritratto adolescenziale che ha perpetuato, ben oltre il limite dell’immagine pubblica.
L’interpretazione di Sean Penn ha del miracoloso. I gesti, la voce, le mani, la camminata lenta, il modo di sorridere, sono una creazione del tutto originale, che lascia senza parole. Dalle foto trapelate in anteprima sembrava potesse essere un ritratto troppo caricaturale, grottesco, invece il suo Cheyenne e’ di una tenerezza travolgente, un bambino di cinquant’anni mai veramente cresciuto, che improvvisamente entra in contatto con il dolore degli altri, con l’abbandono, con la guerra, con il risentimento.
Sulla paura degli altri e di se stesso, Cheyenne ha eretto una vita senza felicita’, recluso nella villa grandiosa e nella routine di un piccolo paese d’irlanda. Imparera’ a mettere in discussione ogni cosa, sotto il cielo senza confini dello Utah, del New Mexico, ma anche nelle stanze di motel, nelle casette con piscina, negli squallidi trailer, che sono quelli di chi ha vissuto davvero la sua vita, nel bene e nel male.
Qualcuno continua a rimproverare a Sorrentino il suo talento registico, il fatto che la sua macchina da presa si faccia vedere, si muova senza l’invisibilità, tipica del cinema classico, e senza l’immobilità, propria del cinema d’autore europeo.
Il talento barocco di Sorrentino qui sfrutta invece tutte le possibilita’ offerte dalla grande terra d’America, sia in orizzontale, con il cinemascope, sia in verticale con continui dolly, che incombono sui personaggi e sulle loro grandi auto. Magari finisce per sembrare come Charlie nella fabbrica di Willy Wonka, ma anche grazie alla collaborazione di Luca Bigazzi, gli eccessi sono sotto controllo.
Magnifica la colonna sonora di David Byrne, in cui ritorna spesso la canzone del titolo, in diversi arrangiamenti.
Sorrentino non sbaglia quasi nulla, almeno nella prima metà, e ci regala un altro monologo che mette i brividi, un po’ come quello di Andreotti sul male. Qui e’ Cheyenne che rivolto a noi e a Byrne, confessa tutta la sua inadeguatezza, il bluff di una carriera costruita sulla depressione e lo sconforto degli adolescenti, non perche’ quei sentimenti li provasse davvero anche lui, ma perche’ erano di moda, semplici e remunerativi.
This must be the place è il più spiazzante tra i suoi film, una conferma del suo talento purissimo nel dipingere un altro ritratto in chiaroscuro, in cui prevale stavolta la dolcezza, il senso di giustizia e l’umanita’ ritrovata grazie a uno sberleffo, che spezza la spirale della vendetta e si prende una rivincita sulla storia.
Ed alla fine anche Cheyenne, nascosto per troppo tempo dietro l’immagine comoda dell’eccentricità, ritroverà se stesso, solo imparando ad essere quella figura paterna, che ha sempre rifutato: è una lezione malinconica e commovente, che segna definitivamente la maturita’ artistica di Sorrentino, in un festival nel quale quasi tutti i grandi nomi hanno solo cercato solo di rifare se stessi, spesso senza riuscirci. Chi si aspettava un altro fuoco d’artificio pop, come Il divo, magari restera’ interdetto: ma questa e’ tutta un’altra storia.
Ultima revisione: 11 ottobre 2011
continua i racconto del vuoto.
eccessivamente estetizzante
insopportabile egotico della macchina da presa
mai essenziale, semplice o vero.
barocchismi senza concetti.
lezioso e arrogante.
abuso di movimenti inutili che rovinano la perfezione della scena.
spero davvero che vinca l’essenza, la sostanza e non l’uso, l’abuso del superfluo,
perche’ di superfluo c’e’ gia’ molto.
Tra ‘Il ragazzo con la bicicletta’ e questo film c’e’ un abisso, un abisso umano, concettuale, di forza e di profondita’. Sean Penn irrigidito e goffo, falsamente irrigidito e goffo ne e’ l’icona perfetta.
Malick e’ un filosofo visionario
I Dardenne due scrittori antropologi
Sorrentino un regista
Perdonami, hai già visto il film da poter fare descrizione così approfondita degli “errori-orrori” registici? Nel caso beato te, io dovrò aspettare a ottobre…
Comunque essere registi non è assolutamente una pecca, come vai denigrando tu rispetto ad altri autori vincitori di questo festival di Cannes, anzi, ce ne sono pochi in giro degni di tale nome. Siamo circondati da talentuosi maestranti burattini tra le mani della macchina del cinema-business, quindi Sorrentino è regista di quelli con le palle che non hanno bisogno di dimostrarsi visionari o ossessivamente antropologi per distinguersi dalla massa. E’ regista, come pochi.
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