Nope

Nope **1/2

Il cinema di Jordan Peele, fin dal debutto di Scappa – Get Out, ha cercato di raccontare la paura.

Non tanto e non solo in modo diretto, attraverso lucidissimi congegni narrativi che nell’horror hanno sempre navigato con grande sapienza, ma soprattutto da un punto di vista metaforico, suggerendo linee di frattura razziali, sociali ed economiche, che attraversano nel profondo la società americana.

Lo specchio che i suoi film porgono alla nostra natura è uno specchio deformante, senza dubbio, ma in cui siamo perfettamente in grado di riconoscere il nostro paternalismo, la nostra avidità, il nostro malriposto senso di superiorità.

Nope, il suo terzo film, sembra essere al contempo il suo film più grande e ambizioso dal punto di vista produttivo e al contempo quello meno denso e stratificato, sotto il profilo tematico.

Si apre con le voci dei protagonisti di uno show televisivo degli anni ’90 Gordy’s Family, in cui il protagonista era un simpatico scimpanzé. Scopriremo solo poi che quelle che stiamo ascoltando sono le ultime battute pronunciate dagli attori, prima di un evento imprevedibile e sanguinoso.

Ci ritroviamo quindi nel ranch degli Haywood, una famiglia di addestratori di cavalli, la cui liason con il cinema risale sino agli esperimenti di archeologia delle immagini in movimento di Eadweard Muybridge a fine Ottocento.

Una incomprensibile pioggia di oggetti dal cielo ferisce mortalmente l’anziano Otis, lasciando i figli a gestire gli affari di famiglia.

Vediamo così il taciturno e timido OJ e la sfacciata e chiacchierona Em sul set di una pubblicità, quindi dal vicino Jupe, che ora gestisce un parco giochi a tema western, ma è stato il bambino protagonista della sitcom Gordy’s Family e ne custodisce i cimeli ad uso di un pubblico morbosamente appassionato.

Una notte un cavallo degli Haywood scappa nella valle del ranch Agua Dulce e nel tentativo  di riprenderlo, OJ ed Em sono testimoni di un incontro ravvicinato imprevedibile e inatteso.

Certi che non si tratti di un fenomeno isolato, cercano di trarre dalla loro terrificante esperienza qualcosa di buono: assieme al tecnico di uno store di elettronica, installano delle telecamere di sicurezza, per cercare di immortalare il prossimo avvistamento. Solo che ben presto si accorgono che la loro tecnologia non è sufficiente e contattano così un bizzarro direttore della fotografia conosciuto sui set, Antlers Holst, perchè possa aiutarli a realizzare quella ripresa impossibile, che li renda ricchi e famosi.

Gli Haywood vivono come noi nella società dello spettacolo. Anzi sin dalle origini sono parte di quell’inganno. E quando si trovano di fronte ad un evento sconvolgente, una sola reazione subentra alla paura iniziale: sfruttarlo a propria vantaggio, immortalandolo per gli spettatori, facendone uno show.

La stessa idea ce l’ha Jupe, nonostante abbia potuto sperimentare fin da bambino il tragico errore di voler addomesticare per il nostro divertimento, forze selvagge e irrazionali.

Lo specchio rivolto alle nostre paure, diventa così uno schermo dove proiettarle, non tanto per esorcizzarle, ma per farne spettacolo.

Ci saranno danni collaterali? Possibile, ma quello che conta è che lo show possa continuare, anche sfruttando la morbosità per l’orrore.

Come sempre la dimensione simbolica del film è ricchissima e ambigua al contempo: politicamente Nope sembra evocare l’invisibilità del contributo degli afroamericani alla storia del cinema e della stessa costruzione dell’immaginario del Novecento. Gli Haywood sono parte di quella storia, ma sempre in modo marginale, fin dai primi esperimenti e poi ancora oggi di fronte ad un green screen, che ne fagocita la visibilità.

Non è un caso allora se il primo obiettivo dei due fratelli, testimoni dell’imprevedibile apparizione aliena, sia quello di riappropriarsi della paternità di quelle immagini, diventando protagonisti e registi, almeno per una volta.

Non solo, ma la forma stessa della “cosa da un altro mondo” non è tanto una bocca divoratrice, quanto piuttosto una grande pupilla scura, immersa in un gigantesco occhi bianco che infatti quando appare oscura tutti gli altri mezzi di riproduzione e da cui ci si può salvare solo evitando di guardarla.

Qui il film di Peele si apre a nuove derive di senso, sui limiti tra realtà e rappresentazione, sull’ossessione per le immagini e il loro possesso che trova infine nel titanico direttore della fotografia Antlers Holst il suo più lucido riferimento: è lui che alla fine in nome dell’inquadratura assoluta e impossibile si fonde con la creatura, la penetra, la guarda sino ad esserne divorato.

Nope, così come accade nei film precedenti di Peele, accumula sottotrame diverse, usa la dissolvenza in nero come segno di interpunzione ripetuto, soprattutto all’inizio, per  segnare le distanze spaziali e temporali.

Tuttavia questa volta il puzzle, una volta ricomposto, lascia la sensazione che il disegno finale non sia così soddisfacente come accaduto in passato.

L’elemento spettacolare e pop prevale nel lungo terzo atto, che diventa una lotta fra terra e cielo, risolta grazie alla disperazione e all’intelligenza di Em.

Nope è il primo grande film per Peele, che usa la fotografia in IMAX di Hoyte Van Hoytema, collaboratore degli ultimi film di Nolan, per restituire la grandiosità inquietante della valle in cui tutto il film sostanzialmente si svolge.

Lanciato da Universal come un blockbuster estivo a fine luglio, il film ha quella dimensione ludica e spielberghiana che alla fine fa gioco ad ogni altra riflessione e si giova anche di un lavoro raffinatissimo negli effetti speciali e nel design della creatura aliena, che sia all’esterno, sia all’interno e poi nelle sue estroflessioni finali è di grande originalità e suggestione.

Non meno preciso il sound design che alterna rumori, distorsioni e silenzi alla colonna sonora di Michael Abels, capace di sfruttare la tradizione western, anche con una certa dose di ironia.

Nope resta un film di atmosfere, di attese, di sguardi volti verso il cielo, che sublima in quel finale di puro genere, suggestioni che il cinema ha spesso attraversato: dai B-movie degli anni ’50 a The Twilight Zone, da Spielberg a Shyamalan, da Akira fino a Villeneuve.

Peele cerca una propria chiave di lettura, ma non sembra riuscire davvero a trovarla, in un film che rimane un po’ irrisolto nella sua dimensione metaforica, quanto indubbiamente efficace nella costruzione della suspense e nell’azione.

In un cast in fondo molto piccolo, in cui ciascuno ha il modo di emergere sono gli occhi inquietanti di Daniel Kaluuya a fare la differenza ancora una volta, spesso inquadrati di notte o occultati da un cappello da baseball, ma capaci di accendersi al momento giusto.

In Italia solo a cinema, dall’11 agosto.

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