La Napoli in bianco e nero di inizio Novecento con il Vesuvio sullo sfondo.
Immagini d’epoca di un cinematografo che era ancora agli esordi, mentre il teatro riempiva le sale ogni sera. Sono gli anni della Belle Epoque, del Governo Giolitti, dell’affermarsi impetuoso di una borghesia post-borbonica e post-risorgimentale e della canzone napoletana: Eduardo Scarpetta si mette le scarpe, si trucca e nei panni del “suo” personaggio, Felice Sciosciammocca, irrompe sulla scena.
La sua compagnia è anche una famiglia e lui la guida con il piglio del domatore di leoni, mentre a casa lo attendono mogli, compagne, figli legittimi e non riconosciuti.
Scarpetta gira per la città su una carrozza bianca. Il successo del suo personaggio, il furbastro e piccolo borghese Sciosciammocca, fa ombra al popolare Pulcinella di Antonio Petito, nella cui compagnia Eduardo aveva cominciato e che aveva visto morire sul palcoscenico.
Scarpetta aveva capito perfettamente l’emergere di una classe sociale nuova, che voleva ritrovarsi rappresentato anche sulla scena e aveva rubato alle pochade francesi i suoi lavori migliori, compreso quel ‘Na Santarella (ispirato all’operetta di Meilhac e Millaud Ma’mselle Nitouche), che si era rivelato un trionfo.
Attorno a sé, Scarpetta aveva radunato i suoi eredi, indifferente alla separazione tra palcoscenico e realtà, coinvolgendo i figli nelle commedie e progettando una discendenza quasi dinastica, per quello che avrebbe dovuto essere il “suo teatro”.
Ma le tensioni si muovo sottotraccia: suo figlio Vincenzo vorrebbe una carriera diversa, mentre è destinato ad interpretare l’attor giovane e poi i ruoli paterni, una volta che Eduardo si ritirerà.
I giovanissimi De Filippo invece si alternano nel ruolo famigerato di Peppiniello, a cui spetta una delle battute più citate di Miseria e nobiltà.
Le donne sopportano le infedeltà, ma vogliono garanzie, i figli grandi si ribellano, quelli piccoli non sembrano sempre convinti dalla vita in palcoscenico.
A turbare definitivamente gli equilibri fragili su cui si regge il regno di Scarpetta, ci pensa la parodia de La figlia di Jorio di D’Annunzio, che gli attira una lunga causa per plagio, a cui gran parte della cultura napoletana del tempo prenderà parte: Salvatore Di Giacomo sarà il perito dell’accusa, Benedetto Croce quello della difesa, i giovani compositori come Bovio, Murolo e Bracco fischieranno e interromperanno la prima rappresentazione della commedia, incrinando le sicurezze di Eduardo e spingendolo ad un prematuro ritiro dalle scene.
Anche Gennaro Pantalena, fidato partner sulla scena, lo tradirà, accettando le lusinghe di Di Giacomo, per recitare da protagonista nel suo dramma Assunta Spina.
Il film di Martone, il decimo di una carriera cominciata trent’anni fa con il mistero Caccioppoli di Morte di un matematico napoletano, è un affresco storico vibrante e accorato, soprattutto nella prima parte, che ricostruisce la vita di Scarpetta fuori e dentro la scena, con una continuità che non ammette soluzioni. La sua famiglia è il teatro e il teatro è la sua unica preoccupazione.
Il successo, che sera dopo sera, il pubblico gli tributa è la sua linfa vitale, il soffio che gli consente di governare una vita principesca, conquistata dopo la miseria sofferta da ragazzo.
Non a caso quando i contestatori interrompono Il figlio di Jorio, invece di continuare la nuova commedia, si ferma e riprende subito con un vecchio atto unico, che il pubblico già conosce, tornado ad interpretare il personaggio di Sciosciammocca, per compiacere gli spettatori disorientati.
Il consenso a casa e sul palcoscenico rappresenta il suo unico modo di vivere. Le tensioni vanno appianate. Le amanti, i figli, gli amici, i colleghi: tutto va governato e tenuto assieme, in nome di una concordia imposta ad ogni costo, anche con la forza e il carisma.
Martone è formidabile nel gestire i tempi drammatici e quelli comici, con grandissima efficacia, anche quando deve mettere in scena il microcosmo teatrale: lascia a Toni Servillo il ruolo di una vita, nei panni di un sublime mattatore, incapace di uscire dal suo personaggio, anche quando non è più sul palcoscenico.
Meno indovinata mi pare la lunga coda del processo, con le diverse posizioni in conflitto e lo show finale davanti alla corte, dove l’attore surclassa l’imputato, costruendo uno spettacolo sulle dinamiche naturalmente teatrali del giudizio.
Peraltro La figlia di Jorio rappresentava un altro volto di quella stessa ansia borghese, che nell’estetismo estremo del Vate e nella sua ricerca del sublime, rinnegava le proprie origini ricercando una nobiltà d’intenti che era già inconsapevole parodia artefatta e pomposa.
Qui Martone cerca invece un difficile compromesso tra l’istrionismo degli attori (Servillo e Scarpetta), che vorrebbero risolverla con l’affabulazione dell’uditorio e la questione molto più complessa che riguarda il plagio, la parodia, il diritto d’autore e l’utilizzo del lavoro altrui.
Il film sembra riuscirci davvero solo nella cena surreale a Villa Santarella, in cui Scarpetta ospita i suoi più feroci critici e nell’incontro con Benedetto Croce, che pure lo sostiene, ma ne demolisce l’orgoglio e l’entusiasmo, riportando il suo lavoro di genio nell’alveo più limitato, che effettivamente gli compete.
Sarà poi suo figlio Eduardo De Filippo a trascinare la tradizione popolare della farsa e delle maschere, continuamente riproposte, verso un orizzonte radicalmente diverso, capace di raccontare la realtà, rappresentarne gli umori e i sentimenti e trascenderla nella parola capace di parlare a tutti, in qualsiasi tempo.
Tuttavia l’interrogatorio finale di Scarpetta, su cui il film trova la sua conclusione, diventa significativamente il palco dell’ultima recita, dell’ultima grande performance, prima del ritiro e di un passaggio di testimone, diverso da come Eduardo Scarpetta l’avrebbe immaginato.
Sia pure con qualche sbavatura nell’ultimo atto, Qui rido io – il titolo riprende la frase che Scarpetta fece apporre sul muro di Villa Santarella al Vomero – è un film travolgente, denso, capace di raccontare un tempo prezioso e una cultura vivace, contraddittoria, con radici fortissime nella società e nell’opinione pubblica.
Un tempo di battaglie culturali, di talento, di ideali, ma anche di cattiverie, meschinità, menzogne.
Le parole per descrivere Servillo sono finite da troppo tempo, ma nella parte di Scarpetta può mostrare anche a cinema la sua potentissima vena teatrale, la sua mimica esatta, la sua gestualità espressiva e ricchissima, affinata nelle sere infinite sul palcoscenico.
In fondo lo Scarpetta di Martone è un personaggio tragico, che comprendere di non essere più in sintonia con suo tempo e col suo pubblico. Il regista lo ritrae modernissimo, spregiudicato, affamato di consenso, formidabile sia quando guida la compagnia dal palco, sia quando ne valorizza il successo da imprenditore teatrale, sia quando governa una famiglia infinita e proteiforme.
Accanto a lui, un gruppo di interpreti napoletani altrettanto sublime, con Gianfelice Imparato, Cristiana Dell’Anna, Antonia Truppo, Maria Nazionale, Roberto De Francesco, Iaia Forte e Gigio Morra: non manca davvero nessuno.