Pe il suo debutto nel concorso ufficiale di Cannes il francese di origini marocchine Nabil Ayouch (Razzia, Much Loved) sceglie di riaggiornare al flow del rap, la lezione di Laurent Cantet, Palma d’Oro un po’ frettolosa ed estemporanea nel 2008 con La classe.
Casablanca Beats è il primo film marocchino in concorso, ma francamente Fremaux avrebbe potuto evitarcelo e dirottarlo verso Un certain regard o la Quinzaine, dove avrebbe fatto miglior figura.
Si racconta di Anas, ex-rapper (ma poi perchè ex?), che si ricicla insegnando rime e storia del rap in un piccolo centro culturale nel quartiere popolare di Sidi Moumen.
Vive apparentemente dentro la sua macchina, è all’inizio burbero e scontroso con i ragazzi e con la direttrice, ma poi pian piano…
Nel frattempo, come da manuale, le rime sboccate dei ragazzi finiscono per provocare reazioni familiari e scontri all’interno del gruppo, fra tradizionalisti e ribelli, tra ragazzi e ragazze, anche in un Paese come il Marocco che è musulmano e prevalentemente sunnita, ma decisamente laico e retto da una monarchia costituzionale.
Il peso della selezione ufficiale non è per tutti e il film di Ayouch è un lavoro privo di qualsiasi originalità narrativa, che ha scelto semplicemente di aderire al modello di Cantet in tutto e per tutto, con una drammaturgia minima, naturalismo quasi documentaristico, macchina a mano, mimetismo all’interno del gruppo dei ragazzi.
Anche dal punto di vista del racconto, Casablanca Beats è semplice sino alla noia, lineare e senza scosse, senza mai una scossa.
Pur raccontando invece una cultura che è nata, almeno all’inizio, per scardinare luoghi comuni, far emergere i conflitti, parlare chiaro al potere.
Qui invece tutto sembra anestetizzato, di maniera, banale fino allo sfinimento.
Didascalico.