La persona peggiore del mondo

La persona peggiore del mondo ***

Il nuovo film del norvegese, nato a Copenaghen, Joaquim Trier, è il suo quinto lungometraggio ed è certamente uno dei suoi più riusciti, capace di tornare sulle malinconie sentimentali di Oslo, 31 agosto, con una leggerezza che non può che conquistare.

The Worst Person In The World chiude la trilogia di Oslo, che Trier aveva dedicato alla sua città deviando poi con il bellissimo Thelma  verso l’elemento fantastico e sovrannaturale e con Segreti di famiglia verso il dramma familiare.

Il suo nuovo lavoro è il ritratto, in dodici capitoli, della vita di Julie, che il prologo ci mostra diligente studentessa di medicina, prima di decidere che proseguire sarebbe sbagliato perché più del corpo le interessa l’anima.

Deviati gli studi sulla psicologia, Julie si accorge che il suo interesse si è già spostato verso l’immagine e dopo un nuovo abbandono si iscrive ad un corso di fotografia.

In questi anni turbolenti e instabili conosce Aksel, un disegnatore di fumetti, molto più grande di lei, famoso per gli albi sboccati e scorretti del felino Bobcat.

Tra i due la passione è travolgente, ma la differenza d’età pesa. Lui vorrebbe dei figli, lei resiste. I loro amici sono coppie adulte che hanno costruito una famiglia, lei vorrebbe ancora ballare e divertirsi.

Tornando dalla presentazione dell’ultimo lavoro di Aksel, Julie si imbuca ad un matrimonio, conosce Eivind, con cui trascorre una notte surreale e romantica. I due si lasciano al mattino senza sapere nulla l’uno dell’altra, entrambi decisi a non tradire i rispettivi partner.

Poi però il caso ci mette lo zampino. E nel film improvvisamente tutto si ferma, per consentire a Julie e Eivind di ritrovarsi una volta ancora, in una mattina d’estate, senza alcuna interferenza.

Il film comincia con il passo brillante di una commedia romantica e generazionale, ma non riesce e no vuole nascondere fallimenti, infelicità e disillusioni dei suoi personaggi. Trier non ha paura di raccontare il dolore della perdita, la fatica dello stare assieme, i compromessi, gli sbagli che accompagnano la costruzione di un amore, dopo la magia del primo sguardo.

Come di consueto, il regista norvegese è capace di trasformare in cinema i palpiti del cuore. E se in Thelma la terra cominciava letteralmente a tremare per una semplice carezza, questa volta è il tempo a dilatarsi, piegato dal desiderio.

Il film usa una costruzione narrativa rigida ed ellittica, con una divisione in capitoli che evoca la disciplina romanzesca. Il racconto è accompagnato altresì dalla voce di una narratrice onnisciente che in alcuni episodi ha il ruolo del contrappunto ironico, in altri invece sembra rappresentare la coscienza interna del film e dei personaggi, arrivando persino ad anticiparne i dialoghi, con un effetto straniante.

Trier ruba ai migliori: c’è un po’ del cinema nevrotico di Woody Allen, c’è il moralismo di Jeunet, c’è il ritmo indiavolato delle grandi commedie musicali, c’è l’abbraccio travolgente del melò.

Affondando le mani in uno dei generi più bistrattati e consunti del cinema del nuovo secolo, riesce a tirarne fuori un piccolo gioiello prezioso, capace di raccontare il suo tempo con feroce esattezza, cogliendo la fragilità continuamente irrisolta e bisognosa di conferme di Julie, le nostalgie del tempo perduto di Aksel e l’orizzonte modesto di Eivind.

Il regista non ha paura di raccontare i cliché di ogni rapporto di coppia: dalla visita ai genitori, alle vacanze con gli amici, dalle fantasie di tradimento agli incoraggiamenti reciproci, fino alle discussioni interminabili. Ma lo fa attenuando i colori pastello della commedia romantica, corrompendola con i rovelli dell’esistenzialismo, fino ad addentrarsi nel grigio doloroso della malattia.

Tuttavia se la prima parte è più centrata sulle indecisioni di Julie, nella seconda emerge in modo sempre più chiaro il personaggio di Aksel. Forse solo per affinità  ideale e generazionale, Trier e Vogt costruiscono un quarantenne, fumettista underground, testimone di quelle istanze libertarie post-sessantottine e anti-borghesi, e forse proprio per questo incapace di relazionarsi con le istanze della nuova modernità, con la sensibilità delle generazioni successive, con il post-femminismo che lo mette all’indice, per i suoi fumetti politicamente scorretti.

Aksel non è solo lontano da quella perenne infanzia capricciosa in cui sembra vivere Julie, ma è anche un uomo che ha rinunciato al suo tempo, ancor prima di accorgersi di non avere più un futuro.

Il film pian piano si sposta verso di lui, ci rende partecipi della sua inattualità e del suo dolore.

Julie è affascinante, brillante, piena di interessi, sta tra i venti e i trenta ed è una maestra nel dissipare il proprio talento, i propri studi, le proprie relazioni.

Rappresenta benissimo quella parte di noi che vorremmo nascondere, di cui un po’ ci vergogniamo, che ci mette a disagio. E che contribuisce a sfrangiare e slabbrare, a rendere precarie le nostre relazioni, non solo quelle sentimentali.

Ma c’è di più, il suo personaggio sembra adattarsi fluidamente ad un tempo che proclama precarietà e continuo cambiamento. Diventa così incapace di una qualsiasi forma di stabilità, affettiva, ma anche di studi, che si riverbera in una vita professionale inconsistente, tragicamente inadeguata. Le sue fughe da Aksel e i suoi ritorni, afflitta da un senso di colpa che non riesce più nemmeno a capire, non sono che il risvolto di una vita costantemente vissuta in mezzo al mare, in una tempesta di sollecitazioni e di emozioni, che non lasciano altro che un costante senso di fallimento.

In questo senso il film di Trier è anche intelligentemente politico.

Renate Reinsve regala al suo personaggio un sorriso che farebbe invidia a Julia Roberts, è affamata di vita e si vede in ogni momento. Il suo è uno dei personaggi femminili più liberi, complessi, ricchi, che si siano visti nell’ultimo decennio. Carica di su di sè il peso di voler cambiare idea, di voler inseguire il proprio desiderio, di mostrare al mondo molte facce di sè. Anche quelle sgradevoli.

Trier sta dentro la contemporaneità riuscendo magicamente a far entrare nel suo film il privilegio bianco, il metoo, il neo-femminismo, le esagerazioni identitarie, il sessismo, un capitolo alla volta, senza mai strafare, con un equilibrio tra dramma e commedia encomiabile, che non esclude gli eccessi, dalla farsa al melò lancinante della malattia.

Il suo film è una brezza leggera, che ti avvolge e in cui è dolcissimo lasciarsi trasportare, ma pian piano ti accorgi che ti resta addosso una malinconia struggente sul tempo perduto, sugli amori che hai trascurato, su quello che avresti potuto essere e non sei stato, sulle occasioni che non torneranno più.

Da non perdere.

 

E tu, cosa ne pensi?

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.