Locked Down

Locked Down *1/2

Scritto da Steven Knight (Locke, La promessa dell’assassino, Allied) a luglio e girato a Londra da settembre per HBO Max, Locked Down è una sorta di instant movie sulla pandemia, che cerca di non appiattirsi sulle dinamiche di una coppia, la cui crisi personale è scoppiata nei giorni della convivenza forzata, ma scopre nella seconda parte un’anima da heist movie, approfittando proprio delle limitazioni alla sicurezza, dovute al distanziamento.

I protagonisti sono Linda e Paxton: lei CEO europea di una azienda di moda, lui driver in una ditta di trasporti, a causa di un arresto di dieci anni prima, che ha macchiato in modo indelebile il suo curriculum.

Sono assieme da molti anni, ma qualcosa si è rotto. Le loro strade professionali si sono allontanate sempre di più, vivono una bellissima casa con un giardino esterno, in un sobborgo residenziale di Londra, ma dopo Natale hanno smesso di dormire nello stesso letto.

Anche la crisi si riflette nelle loro vite in modo diverso: Linda è sempre più in ascesa, è costretta a licenziare cinque colleghi via zoom e l’untuoso capo la promuove per un ritorno a New York, che non esclude avances sessiste e imbarazzanti.

Paxton invece fatica a trovare un lavoro ed è costretto a cambiare nome e identità, nella ditta per cui effettua le consegne, pur di poter continuare a viaggiare, perchè nessuno altrimenti lo assumerebbe per trasportare carichi preziosi.

Entrambi sembrano aver perduto un po’ della propria identità, costretti a fare cose che non vorrebbero: il culmine arriva quando Paxton vende la sua Triumph, simbolo di quella libertà un po’ selvaggia, che li aveva fatti incontrare e che ora si confronta con la cattività forzata nell’elegante villetta in Portland Street.

Il motore narrativo del film si accende molto tardi, quando i due dopo confessioni dolorose, che li allontanano ancora di più comprendono che Paxton è incaricato di trasportare a Heathrow il preziosissimo diamante esposto a Harrods proprio dalla maison in cui lavora Linda.

Al culmine della loro insoddisfazione personale e sentimentale, un’opportunità inattesa si fa strada per cambiare tutto definitivamente.

Il film di Doug Liman, girato con un micro budget e in soli 18 giorni a Londra, è uno dei primi esperimenti di cinema in pandemia, come pure l’attesissimo Malcolm & Marie di Levinson prodotto da Netflix, con John David Washington e Zendaya.

Nel flusso narrativo del film finiscono così le chiamate via Zoom e Skype, l’uso dei diversi devices digitali, la claustrofobia degli interni obbligati, il sollievo di fare due chiacchiere con chi si occupa del delivery, gli appelli a voce alta alle finestre di casa e le altre piccole grandi angosce che il lockdown ha introdotto nella quotidianità borghese di molte persone.

Il film tuttavia paga la sua nascita affrettata, perchè sembra davvero buttato via: non funziona quasi nulla, nè la parte sentimentale, nè quella sociale e anche il furto che occupa l’ultimo atto del film è implausibile e pasticciato.

Il dialogo verbosissimo tra la Hathaway e Ejiofor viene a noia al terzo scambio di battute ed è tutto piuttosto prevedibile nella loro insoddisfazione. Manca quella brillantezza necessaria a spingere il pubblico potenziale di questo film a rinchiudersi ancora in lockdown faticoso anche sullo schermo.

Sono evidenti le limitazioni di sicurezza imposte alle riprese, ma il film di Liman non riesce mai a farcele dimenticare.  Come molti degli instant movie, anche questo Locked Down lascia il tempo che trova, è affrettato, superficiale e per essere fondamentalmente una commedia romantica, si prolunga per due lunghissime ore.

Una bella sforbiciata al montaggio forse gli avrebbe giovato, eliminando magari camei inutili (vero Ben Stiller, Claes Bang, Mindy Kaling) e rimuovendo del tutto le chiamate al fratello di Paxton, che non ha alcuna funzione drammatica.

Locked Down resta un film sciatto, mal assortito, che si trascina verso un happy ending inevitabile, ma che suona altrettanto deludente e che lascia lo stesso sapore insipido di tutto il resto.

L’unica cosa effettivamente originale e riuscita è la spiegazione del funzionamento di Harrods, della parte emersa e di quella sotterranea, con i suoi lunghi corridoi di servizio, i suoi ascensori di sicurezza e il suo microcosmo laborioso, sempre in movimento.

Peccato che Liman non sia riuscito a valorizzare di più questa immagine così forte, metafora di un mondo in cui il sacrificio e il lavoro è sempre più nascosto e rimosso.

Deludente.

 

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