Star Wars – L’ascesa di Skywalker

Questa recensione è priva di spoiler significativi. In ogni caso, se volete evitare qualsiasi informazione o suggestione, prima di vedere il film, vi consigliamo di leggerla solo in un secondo momento.

Star Wars – L’ascesa di Skywalker **

I morti parlano! La galassia ha ascoltato una trasmissione misteriosa, una minaccia di vendetta dalla voce sinistra del defunto imperatore Palpatine…

Sono queste le prime parole dell’ultimo film di Star Wars, quello che promette di chiudere dopo oltre quarant’anni, la storia di Luke, Leia, Han e della Resistenza della Vecchia Repubblica, contro l’Impero tirannico, instaurato dall’oscuro Senatore Palpatine.

Concludendo la recensione de Gli Ultimi Jedi, ci chiedevamo come avrebbe fatto J.J.Abrams a scrivere la parola fine al lungo viaggio cominciato dalla passione e dalla fantasia di un giovane regista di Modesto, innamorato del cinema giapponese e dei serial di fantascienza, di Flash Gordon come della tradizione arturiana.

Rian Johnson aveva compiuto un’opera di completa destrutturazione del canone originario, creando una sorta di gigantesco anticlimax, rispetto ai suoi predecessori, capace di travolgere i quattro nuovi personaggi creati da Abrams e Kasdan per Il risveglio della Forza e compiendo un’operazione di riscrittura, spericolata e incoerente, persino dell’eroe assoluto della saga, quel Luke Skywalker, da cui tutto era cominciato.

Richiamato in tutta fretta a riprendere la guida di questo ultimo capitolo, dopo la valanga di reazioni negative a Gli Ultimi Jedi e il tonfo doloroso dello spin off sul giovane Han Solo, Abrams si è trovato ancora una volta con una missione disperata da compiere e contemporaneamente con la necessità di recuperare lo spirito originario del progetto, riportando il treno, deragliato clamorosamente, sui binari giusti, conducendolo sino alla stazione di arrivo.

Da grande regista filologo, archivista dell’immaginario lucasian-spielberghiano, Abrams ha chiamato a dargli una mano Chris Terrio, premio Oscar per Argo, ed assieme a lui ha scelto la soluzione più radicale, rettificando completamente tutte le scelte controverse di Rian Johnson, con un’opera di ingegneria inversa, decidendo di ricollegarsi direttamente alla tradizione della trilogia classica e al suo Il risveglio della Forza, lasciando invece a Gli Ultimi Jedi il ruolo dell’esperimento rinnegato, della parentesi marginale nel grande racconto di quella galassia lontana lontana.

Peraltro il secondo capitolo era riuscito nell’impresa di emarginare completamente due dei quattro nuovi personaggi, di eliminare rapidamente il villain designato, il Leader Supremo Snoke, nonchè di distruggere la mitologia di Luke Skywalker e di resuscitare invece il personaggio interpretato da Carrie Fisher, prematuramente scomparsa: tutto quello che Abrams aveva seminato nel primo episodio, Johnson l’aveva sapientemente estirpato, restituendogli così un terreno inaridito, su cui era rimasto un solo germoglio, il rapporto d’attrazione tra Ben Solo/Kylo Ren e Rey.

Si riparte così dall’Imperatore Palpatine, che non è davvero morto per mano di Vader, alla fine de Il ritorno dello Jedi, ma si è rifugiato in un pianeta misterioso, Exogol, che è possibile raggiungere solo possedendo un puntatore, che ne indichi la rotta. Kylo Ren recupera uno dei due puntatori esistenti e incontra finalmente il grande burattinaio che ha mosso il Supremo Leader Snoke e promosso l’avvento del Primo Ordine. Palpatine confida a Ren il suo piano finale, per restaurare l’Impero con una flotta fantasma, pronta a salpare da Exogol.

Rey nel frattempo cerca di completare il suo addestramento Jedi, ma le notizie su un redivivo Palpatine, la spingono a rintracciare tra i quaderni di Luke, gli indizi per recuperare il secondo puntatore, l’unico modo per evitare che i piani dell’Imperatore possano distruggere una Resistenza ancora molto debole.

Seguendo le tracce del Maestro Skywalker Rey, Poe, Finn, C3PO, BB8 e Chewie si sposteranno di pianeta in pianeta, troveranno vecchi e nuovi amici, fino ad arrivare ad Endor, sul relitto inabissato della seconda Morte Nera: qui Rey e Kylo si sfideranno nuovamente a duello, cercando nel contempo l’uno di  convincere l’altra a passare al lato oscuro della Forza.

Richiamato di nuovo il fidato Daniel Mindel a donare alla fotografia dei differenti pianeti quel look caldo, che solo la pellicola 35mm riesce ancora ad evocare così precisamente, anche quando le dominanti sono blu e ciano, come su Endor o addirittura il nero, come su Kijimi o su Exogol, Abrams ha preso sul serio il compito di chiudere definitivamente le avventure degli Skywalker, recuperando a favore dei fans, ma anche della stessa complessità e ricchezza della storia, luoghi, personaggi, fantasmi del passato.

Con la stessa testarda determinazione di un Kevin Feige, Abrams ha evocato sul proscenio finale, tutti coloro che in questo grande spettacolo popolare hanno avuto un ruolo decisivo. Ha mostrato le rovine delle guerre passate e ha ancora una volta costruito, attorno alla centralità spirituale e immanente della Forza, un scontro identitario e ideale, che non è solo quello dei due eserciti contrapposti, ma che attraversa nel profondo la natura dei suoi stessi personaggi.

Al contempo ha recuperato ai caratteri introdotti da Il risveglio della Forza, la dignità di personaggi veri, che vivono un conflitto irrisolto tra paura e desiderio, che lottano, hanno un passato che li insegue e un futuro da scrivere ancora.

E’ poi significativo come L’ascesa di Skywalker riscriva completamente il personaggio di Luke, correggendo con la matita rossa le assurdità di Johnson e recuperando il carattere originale dell’eroe lucasiano.

Grazie alla computer grafica e alle scene girate quattro anni fa, Abrams è stato anche in grado di dare alla principessa Leia di Carrie Fisher un finale degno della sua grandezza.

Nella seconda parte de L’ascesa di Skywalker finiscono per prevalere tuttavia il blu glaciale e il nero cupo, che non è solo quello dello spazio in cui si svolgono le avventure dei nostri eroi.

La storia è popolata di voci oscure, di ritorni improvvisi, di fantasmi che continuano a ripresentarsi sulla scena, quasi fossero la materializzazioni delle paure e dei desideri del passato, che non vogliono abbandonare i protagonisti, influenzandone le scelte e il destino.

Questo nono capitolo è un grande requiem di morte e di addii ai personaggi storici, a quelli nuovi, alle avventure di una saga che non è mai parsa così vicina alla fine.

Non vogliamo rovinare la sorpresa a chi vedrà il film, ma sono molti i ritorni. Forse troppi.

Il limite è proprio nel desiderio di Abrams di scrivere una parola conclusiva per tutte le linee narrative, nel voler far tornare i conti per tutti, accontentando i fans storici, come quelli nuovi.

Da Lucas, Abrams ha tratto la convinzione che la storia di Star Wars sia una storia eterna, la mitologia di una galassia lontana che si ripete nel tempo, con la lotta perpetua tra la Forza e il Lato Oscuro, con la necessità dell’eroe scoprire se stesso e il proprio posto nel mondo.

Non è un caso allora se Lucas l’abbia presto trasformata in una storia di padri e figli, di generazioni che si scontrano, si tradiscono, prendono posizione, si combattono. Abrams l’ha compreso perfettamente e ha riannodato, per quanto gli era possibile, il filo con il passato.

Come ha scritto Lorenzo Rossi su Cineforum: “la grande novità in L’ascesa di Skywalker sta proprio nel tematizzare uno dei grandi nodi della contemporaneità. E cioè quella paura di crescere, di diventare grandi e di affrontare le sfide con cui la generazione nata proprio insieme a Star Wars e quelle successive si sono scontrate e continuano a scontrarsi”.

E’ un tema che appare molto caro anche al Lucas di American Graffiti e de L’ultima Crociata e che qui trova in Rey la sua manifestazione più evidente: è lei infatti che nel finale, rinunciando alla propria eredità, sceglie la libertà di darsi un nome nuovo, quello dei suoi maestri.

Quasi come un corollario a tutto questo, c’è una nota di sentimentalismo forse troppo evidente e accentuata, che il regista sembra mutuare dal cinema di Spielberg, un regista che su quella nota ha costruito il suo successo, almeno sino a Schindler’s List.

Forse era inevitabile, considerato il compito che la Lucasfilm aveva assegnato ad Abrams, ma soprattutto nel lungo ultimo atto, gli eccessi negli effetti speciali, nella musica di John Williams e nella scrittura melodrammatica e celebrativa, sembrano spingere il film su un’ottava più alta del dovuto.

Un maggior rigore avrebbe giovato al film, che infine trova la chiusura quasi perfetta proprio nella solitudine del deserto di Tatooine.

Sia pure con i suoi squilibri e i suoi eccessi e con la sua ansia di voler chiudere ogni cerchio, L’ascesa di Skywalker – titolo peraltro incomprensibile e fuorviante – ci sembra tuttavia più centrato rispetto a Gli Ultimi Jedi, magari senza le vette visionarie dell’attacco al pianeta di sale o del duello con le guardie di Snoke.

Ad Abrams la Lucasfilm ha assegnato il compito di rimettere assieme i pezzi di un lavoro andato in frantumi. Ma come vuole la tradizione giapponese, le linee di frattura si vedono tutte.

C’è una bellissima scena nel film, che vale come una sorta di sineddoche del lavoro di Abrams, nella quale Kylo Ren fa rimettere in sesto la sua vecchia maschera, distrutta all’inizio del film precedente.

Lo spirito de L’ascesa di Skywalker è tutto lì. Forse non è abbastanza per farne un grande film, ma è almeno un punto di partenza.

Come detto, Abrams cerca di valorizzare il cast dei giovani attori, dalla coppia impossibile di Daisy Ridley e Adam Driver, quest’ultimo finalmente a suo agio nei rovelli di un uomo diviso dalla sua eredità familiare, a quella composta da Oscar Isaac e John Boyega, che si carica sulle spalle la seconda linea narrativa del film, recuperando una centralità negata ne Gli Ultimi Jedi, che purtroppo ancora pesa.

Quasi obbligata invece la scelta di recuperare il villain storico della serie, Palpatine, che Ian McDiarmid interpreta con la consueta ferocia esagerata.

Gustosi come sempre gli alleggerimenti comici affidati ai droidi, quelli vecchi e quelli nuovi. Come da tradizione anche i personaggi marginali si fanno ricordare, dai piloti degli X-wing, a Zorii Bliss, una vecchia fiamma di Poe Dameron, interpretata da Keri Russell, fino alla Maz Kanata di Lupita Nyong’o, che si rivede, dopo essere rimasta in disparte ne Gli Ultimi Jedi.

Non sappiamo ancora dire, scrivendo a caldo, poche ore dopo aver visto il film, se questo L’ascesa di Skywalker sia una sorta di Congresso di Vienna, dopo la libertà della Rivoluzione di Rian Johnson, o se si tratti del ritorno dell’ordine democratico, dopo un tentativo fallito di colpo di stato.

Se si tratti cioè di un ripiegamento nell’ortodossia un po’ prevedibile, tipica dei sequel/reboot/remake di questi anni, o se sia un necessario ritorno alle origini, a quel retro-futuro, che è stato il leit-motiv della prima trilogia, dopo il tentativo destrutturante, ma poco riuscito di Gli Ultimi Jedi.

Ovviamente il giudizio su questo L’ascesa di Skywalker è strettamente connesso a quello sul film di Johnson. Chi ha amato Episodio VIII per la sua audacia, farà fatica ad accettare il ripiegamento romantico di Abrams. Altri invece lo troveranno necessario.

Rian Johnson ha dichiarato, qualche giorno prima del debutto di questo capitolo finale: “approaching any creative process making fandoms happy would be a mistake that would lead to probably the exact opposite result”. E poi ancora: “I want to be challenged as a fan when I sit down in the theater”. 

Nessuno potrebbe obiettare a questi principi, ma il suo film è stato così distruttivo, rispetto al canone originale, da essere stato rigettato completamente, non solo dai fans, ma altresì dalla sua committenza, la Lucasfilm. Non c’è stata nessuna sorpresa, nessuno shock positivo, nessuna svolta narrativa sfidante.

Il successo dell’iperclassico The Mandalorian, il serial di Filoni e Favreau, costruito con gli episodi autoconclusivi come un vecchio procedurale tv degli anni ’70, con lo stesso look visivo del capostipite e dei film di Abrams, nonchè con lo stesso spiccato registro di genere, sembra indicare una prevalenza dell’approccio romantico e conservatore.

La verità è che entrambe le scelte ci appaiono fallaci. Bisognerebbe, molto semplicemente, smetterla di fare i film avendo in testa aspettative, desideri e ossessioni dei fans. Ma quando sui fans è stato costruito un impero, come è accaduto per Star Wars, l’impresa è pressochè impossibile.

Se da una parte infatti c’è il lascito ereditario, il DNA di una Storia, che rimane per lo più ignorato e che sembra aver perso ogni valore, dall’altra c’è invece l’ossessione vintage per il passato, con il corollario del più micidiale dei sentimenti, quella nostalgia idealizzante, che riduce tutto ad un confortevole tradizionalismo.

Quello che prevale, alla fine di questa terza trilogia, è la sensazione di un’occasione, in buona parte, mancata. Se i criticatissimi prequel di Lucas avevano presto abdicato alla coerenza narrativa, in favore del lato più sperimentale e tecnologico, ma erano in ogni caso la fine del testardo percorso autoriale del suo creatore, che li aveva scritti, diretti e prodotti in solitudine, questi sequel sono invece il frutto collettivo della nuova Lucasfilm, nella quale la guida della Kennedy è stata tanto timida sul versante artistico, quanto odiosa e padronale sul versante imprenditoriale, con registi e sceneggiatori cacciati, sostituiti, sconfessati.

In assenza di un deus ex machina, capace di indicare una direzione chiara, prendendosene la responsabilità, dopo il riavvio, tra sequel e remake, de Il risveglio della Forza, la serie ha preso una direzione coraggiosa, ma incosciente, ora completamente sconfessata. L’arco narrativo ne è risultato interrotto bruscamente, poi rammendato alla meglio.

Sul corpo di questa nuova trilogia si è combattuta una piccola grande battaglia culturale, che ha inevitabilmente lasciato i suoi segni, in termini di compattezza e armoniosità del racconto.

Abrams utilizza tutta la sua professionalità e il film, grazie ad un ritmo sostenutissimo e ad una confezione impeccabile, rimane comunque godibile. Ma si avverte, in modo chiaro, tutta la fatica di condurre finalmente in porto questa corazzata.

Solo il tempo ci dirà davvero cosa resterà di questi ultimi tre film, creati come una sorta di risposta ai prequel stranianti di Lucas, ma costretti a fare i conti presto con squilibri interni ed esterni, che ne hanno turbato e influenzato gli esiti.

Dopo aver letteralmente sotterrato le armi del passato, per Star Wars si apre una sfida nuova. Quella di ricominciare il racconto altrove, nel tempo e nello spazio.

Ma forse l’impresa più grande, per la Hollywood di oggi, è quella di trovare un nuovo George Lucas, un creatore di mondi, capace di affascinare e coinvolgere le prossime generazioni di spettatori.

2 pensieri riguardo “Star Wars – L’ascesa di Skywalker”

  1. Tre stelle ci stanno tutte secondo me! Non era facile chiudere una saga composta da 9 film, non tutto gira alla perfezione ma meglio di così non si poteva fare, bravissimo Abrams!

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