Stranger Things 3 ***
In uno degli episodi della terza stagione di Stranger Things, Dustin e Erica si ritrovano, senza volerlo, in un cinema affollato. Sullo schermo scorrono le immagini di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis. Il nerd tuttologo Dustin e la “reaganiana” secchiona Erica, che a dieci anni pare la discepola prediletta di Milton Friedman, sono appena fuggiti da un esercito invasore. I russi! Anzi, i rossi… Ad Hawkins, Indiana, nel cuore degli Stati Uniti d’America (!), i comunisti stanno tentando di riaprire il varco tra le dimensioni, chiuso da Eleven/Undi al termine della season two. Con loro, ci sono anche l’aspirante seduttore Steve e la misteriosa, intrigante Robin, strafatti di una strana sostanza iniettata dal Nemico.
E’ necessario soffermarsi un momento su questo cortocircuito temporale. Noi, nel 2019, guardiamo una serie tv ambientata nel 1985, che a sua volta strizza l’occhio ad un film epocale, noto per giocare con i paradossi della fisica contemporanea. Nel film, Marty, il protagonista, torna indietro fino al 1955 con la macchina del tempo inventata da Doc. Ciò gli consente di conoscere sua madre, ovviamente giovane, che si innamora di lui. Un guaio edipico. Una matassa da sbrogliare è anche il successo planetario di Stranger Things, serie Netflix che ci riporta ad un decennio fatale, segnato dalla depoliticizzazione delle masse e dal trionfo del libero mercato, accogliendoci in una comfort zone seducente. Decennio dal quale, cantavano a ragione gli Afterhours, non si può uscire vivi.
Mark Fisher, compianto sociologo e critico culturale, in Ghosts of my life, di recente edito da Minimum Fax con il titolo Spettri della mia vita, dedica splendide riflessioni al tema della “lenta cancellazione del futuro”, un fenomeno iniziato a suo dire nella prima metà degli anni Ottanta. Tale “stasi”, scrive Fisher, è stata sepolta sotto una “superficiale frenesia di novità, di movimento perpetuo”. Dagli albori dell’epoca informatica, sostiene l’autore, si è imposta, con assoluta evidenza, la tendenza ad assemblare elementi di ere precedenti in un discorso fluido. “Internet e le tecnologie di telecomunicazioni mobili”, scrive Fisher, “hanno completamente modificato la trama dell’esperienza quotidiana. Eppure, e forse proprio a causa di ciò, proviamo la crescente sensazione che la cultura abbia perso la capacità di cogliere e articolare il presente. O forse, in un particolare senso molto importante, sentiamo che ormai non esiste più nessun presente da cogliere e articolare”. La tecnologia cristallizza il flusso degli eventi in un tempo sospeso. La maschera da sub, indossata da Undi nello spogliatoio della piscina per aumentare le sue capacità psicocinetiche, è una probabile allusione alle potenzialità della immersive virtual reality.
Nella nuova stagione di Stranger Things l’ostensione dei segni di un mondo scomparso/perenne raggiunge l’apice. Sono le ultime vestigia di una Storia ancora rappresentabile, fotografate con pedanteria quasi documentaristica. I Duffer Brothers, cervelli della serie, azzardano la carta della guerra fredda. Chi mai si sarebbe aspettato l’arrivo dei comunisti? La musealizzazione degli Anni Ottanta è un inganno, una farsa efficacissima, l’esito e il tramonto della filosofia della pop art. Prendiamo la risposta di Lucas ai compagni di avventura, sorpresi di fronte al suo piacere, comunicato con posa teatrale, nel bere una ‘New Coke’, la nuova ricetta della Coca-Cola distribuita nel 1985, un esperimento fallito: “è come La Cosa di Carpenter, sai che è un remake dell’originale”… avrebbe senso preferire l’originale? Superficiale frenesia di novità… La lattina piena di dolce ‘New Coke’ è il remake sotto cui riposano le spoglie immortali del fantasma, il marchio eterno che reclama la fedeltà del palato nonostante i cambiamenti. Lucas ha compreso una verità: il marketing può permettersi di triturare qualsiasi contenuto.
Nella nuova stagione di Stranger Things l’ostensione dei segni di un mondo scomparso/perenne raggiunge l’apice. Sono le ultime vestigia di una Storia ancora rappresentabile, fotografate con pedanteria quasi documentaristica. I Duffer Brothers, cervelli della serie, azzardano la carta della guerra fredda. Chi mai si sarebbe aspettato l’arrivo dei comunisti? La musealizzazione degli Anni Ottanta è un inganno, una farsa efficacissima, l’esito e il tramonto della filosofia della pop art. Prendiamo la risposta di Lucas ai compagni di avventura, sorpresi di fronte al suo piacere, comunicato con posa teatrale, nel bere una ‘New Coke’, la nuova ricetta della Coca-Cola distribuita nel 1985, un esperimento fallito: “è come La Cosa di Carpenter, sai che è un remake dell’originale”… avrebbe senso preferire l’originale? Superficiale frenesia di novità… La lattina piena di dolce ‘New Coke’ è il remake sotto cui riposano le spoglie immortali del fantasma, il marchio eterno che reclama la fedeltà del palato nonostante i cambiamenti. Lucas ha compreso una verità: il marketing può permettersi di triturare qualsiasi contenuto.
Allo stesso modo, il tentacolare, anonimo, luccicante Sharcourt Mall, scenario e protagonista diretto di molte sequenze della season three, risucchia le attività commerciali di un paese ridotto a simulacro della comunità che fu. Vediamo avanzare la zombificazione, l’estetica da villaggio dei dannati, il weird e la deformazione grottesca. Il ‘realismo capitalista’ genera mostri. Tra le colonne e le fontane posticce, il blob parassita esibisce le sue gommosità da b-movie. Intanto, si approssima una data speciale per i nostri eroi: la festa del 4 luglio che, provocazione!, è pure la data di distribuzione netflixiana della serie tv.
Il vaso di Pandora, nella terza stagione, si riversa nel “nostro” mondo. Il terrore invade il palcoscenico della realtà. Il termine Sottosopra, entrato nel vocabolario universale dei fanatici di serie tv, perde importanza. Il ‘Mind Flayer’, gigantesca e vorace creatura composta delle carni delle sue vittime, è l’esemplificazione organica, splatterosa, dell’e pluribus unum, ironico titolo di un episodio e motto nazionale degli Stati Uniti. Dalle moltitudini, l’Uno, ovvero l’Universo immutabile dei consumatori… L’idea di situare l’attività criminale dei sovietici in pieno territorio americano può sembrare una trovata ridicola. Eppure, nell’economia della serie, è una scelta distopica coerente. La realtà alternativa non è più nel sottosuolo della fantasia, non si associa, come controcanto, all’immaginazione ben regolata dei giochi di ruolo, restando però dall’altro lato dello specchio: progressivamente, esplode nel quotidiano e lo travolge, fino a ingoiarne i pezzi.
I ragazzi sono cresciuti. Stranger Things 3 celebra la fine dell’innocenza. Sfidarsi a Dungeons and Dragons non è più sufficiente per trascorrere le giornate. La comitiva si apre a nuove esperienze. Le coppie si consolidano. Mike Wheeler sta con Jane “Eleven” Hopper, Lucas Sinclair con Max Mayfield, mentre il pacioso Dustin Henderson si infila in una fantomatica relazione a distanza… Solo Will Byers resta fuori dalla logica dei flirt incrociati, del tira-e-molla adolescenziale, e ne risente. Will, il più sensibile e sguarnito del gruppo, avverte il ritorno dell’incubo prima degli altri. Le linee di indagine sono almeno quattro, inconsapevolmente convergenti. Nancy Wheeler e Jonathan Byers, giovani adulti, si affannano attorno a un reportage su topi affamati di fertilizzanti e vecchie signore possedute dalla COSA, un lavoro da premio Pulitzer che i mediocri giornalisti del locale Post rifiutano e scherniscono. Joyce Byers e Jim Hopper, adulti fatti e finiti, al secolo Winona Ryder e David Harbour, ingaggiano una battaglia all’ultimo sangue contro uno spietato Schwarzenegger russo, parente malvagio di Ivan Danko, e imbarcano nel loro sgangherato progetto uno scienziato sovietico, presto conquistato dalle meraviglie consumistiche del capitalismo americano. La bizzarra squadra composta da Dustin, Erica, Steve e Robin si spreme per decrittare un messaggio in codice, captato sulla cima di una collina… E poi c’è il bagnino toy boy, Billy Hargrove, estimatore delle giovani madri di Hawkins e burattino in mano alle potenze nemiche.
I ragazzi sono cresciuti. Stranger Things 3 celebra la fine dell’innocenza. Sfidarsi a Dungeons and Dragons non è più sufficiente per trascorrere le giornate. La comitiva si apre a nuove esperienze. Le coppie si consolidano. Mike Wheeler sta con Jane “Eleven” Hopper, Lucas Sinclair con Max Mayfield, mentre il pacioso Dustin Henderson si infila in una fantomatica relazione a distanza… Solo Will Byers resta fuori dalla logica dei flirt incrociati, del tira-e-molla adolescenziale, e ne risente. Will, il più sensibile e sguarnito del gruppo, avverte il ritorno dell’incubo prima degli altri. Le linee di indagine sono almeno quattro, inconsapevolmente convergenti. Nancy Wheeler e Jonathan Byers, giovani adulti, si affannano attorno a un reportage su topi affamati di fertilizzanti e vecchie signore possedute dalla COSA, un lavoro da premio Pulitzer che i mediocri giornalisti del locale Post rifiutano e scherniscono. Joyce Byers e Jim Hopper, adulti fatti e finiti, al secolo Winona Ryder e David Harbour, ingaggiano una battaglia all’ultimo sangue contro uno spietato Schwarzenegger russo, parente malvagio di Ivan Danko, e imbarcano nel loro sgangherato progetto uno scienziato sovietico, presto conquistato dalle meraviglie consumistiche del capitalismo americano. La bizzarra squadra composta da Dustin, Erica, Steve e Robin si spreme per decrittare un messaggio in codice, captato sulla cima di una collina… E poi c’è il bagnino toy boy, Billy Hargrove, estimatore delle giovani madri di Hawkins e burattino in mano alle potenze nemiche.
“Gli oggetti culturali di massa sono diventati il collante di una certa forma di vita pubblica”, ha scritto Rebecca Liu, giornalista del mensile britannico Prospect, a proposito dell’influenza della tv ‘serializzata’ sulle abitudini dei millennials. In Stranger Things 3, superfluo sottolinearlo, si aggira lo spettro della nostalgia spudorata. Gira, vorticosa, la giostra delle citazioni. Magnum P.I. e Miami Vice imperversano in televisione e il buon Jim Hopper, americano medio, anzi, occidentale medio, ne è ghiotto; gli immortali blockbuster, imputabili del crimine, non rimediabile, di aver cresciuto la generazione degli attuali quarantenni, polverizzano record al botteghino e contribuiscono alla costruzione di un vasto immaginario collettivo; il genere horror è vissuto come rito di iniziazione da torme di quattordicenni brufolosi… e poi, la moda. Eleven/Undi, da bambina dark, sboccia nei colori camp di Madonna e di Cindy Lauper. Una delle fortune di Stranger Things, elemento che non sarà mai lodato abbastanza, è la colonna sonora, poggiata sulle spalle del duo Kyle Dixon & Michael Stein, alias i S U R V I V E.
Che tempi incantevoli, vero? Tempi incastonati nel sempre. “Secondo il poeta irlandese Oscar Wilde, quando saremo sul punto di raggiungere La Terra dell’Abbondanza dovremmo puntare lo sguardo ancora una volta sull’orizzonte più lontano e issare di nuovo le vele”. Tuttavia, incappiamo in un limite. “L’orizzonte lontano non si intravede. La Terra dell’Abbondanza è avvolta dalla nebbia”. L’utopia è morta e non c’è nessun “sogno nuovo a sostituirla”. Non riusciamo a scollarci di dosso il peso dell’esistente, a intravedere un miglioramento. “Di fatto nei paesi ricchi la maggior parte dei genitori ritiene che i figli se la passeranno peggio”. Niente di strano, allora, se la società inverte la rotta e naviga a ritroso, verso l’eden del quanto eravamo felici. Così scrive Rutger Bregman in Utopia per realisti (Feltrinelli), un passaggio che il grande Zygmunt Bauman ha estrapolato e inserito nel suo ultimo libro, dal titolo emblematico, Retrotopia (Laterza).
Che tempi incantevoli, vero? Tempi incastonati nel sempre. “Secondo il poeta irlandese Oscar Wilde, quando saremo sul punto di raggiungere La Terra dell’Abbondanza dovremmo puntare lo sguardo ancora una volta sull’orizzonte più lontano e issare di nuovo le vele”. Tuttavia, incappiamo in un limite. “L’orizzonte lontano non si intravede. La Terra dell’Abbondanza è avvolta dalla nebbia”. L’utopia è morta e non c’è nessun “sogno nuovo a sostituirla”. Non riusciamo a scollarci di dosso il peso dell’esistente, a intravedere un miglioramento. “Di fatto nei paesi ricchi la maggior parte dei genitori ritiene che i figli se la passeranno peggio”. Niente di strano, allora, se la società inverte la rotta e naviga a ritroso, verso l’eden del quanto eravamo felici. Così scrive Rutger Bregman in Utopia per realisti (Feltrinelli), un passaggio che il grande Zygmunt Bauman ha estrapolato e inserito nel suo ultimo libro, dal titolo emblematico, Retrotopia (Laterza).
Tuttavia, la difesa dello spirito retrò, nella terza stagione, è minacciata da tensioni e accadimenti inediti. Qualcosa scricchiola. Subentra inquietudine e al termine della serie qualcuno inaspettatamente muore. Il finale è un valzer di addii, di porte chiuse, di partenze. Tutto calibrato, tutto riconducibile alle regole ben oliate del meccanismo seriale, si potrebbe obiettare. Ma è davvero così? Tra i cultori del fenomeno è nato un dibattito attorno a Maya Hawke, attrice che ha parzialmente oscurato l’astro, comunque brillante, di Milly Bobby Brown, ormai attratta dalle sirene delle copertine dei giornali e calata nel ruolo di fidanzatina d’America. Preferiamo glissare sul parallelo gossipparo “madre versus figlia” (per chi ancora non lo sapesse, Maya Hawke ha il cognome del padre, Ethan, e l’elusiva, distante bellezza della madre, Uma Thurman); piuttosto, ci pare degno di considerazione l’outing di Robin, una dichiarazione di omosessualità che l’enigmatica ragazza stampa in faccia a uno Steve incredulo, incapace per alcuni secondi di comprendere cosa gli stia rivelando la sua spigliata collega. Nella maschera distorta da gigolò deluso è possibile leggere un brivido di sincerità. Non è secondario che entrambi, nell’occasione, stiano ancora scontando gli effetti del siero della verità. “Il crepitio ci rende coscienti del fatto che stiamo ascoltando un tempo che è fuor di sesto”, scrive Mark Fisher a proposito della simulazione del suono analogico nella musica digitale. Avviene qui qualcosa di simile: le parole di Robin sembrano l’unica cosa vera in un palinsesto di finzioni.
Cosa ci riserverà la quarta stagione di Stranger Things? Impossibile dirlo. L’evoluzione della serie è un salto nel buio, un po’ come le escursioni extrasensoriali di Undi, tanto somiglianti alle passeggiate extraterrestri di Scarlett Johansson in Under the Skin di Jonathan Glazer (2013). “And when the night is cold and dark / You can see, you can see light”, canta Corey Hart in Never Surrender, canzone contenuta nell’episodio di apertura. Mai arrendersi, my friend, anche quando un ‘Mind Flayer’ ti alita sul collo. La lotta del Bene contro il Male è una storia infinita, baby.
Cosa ci riserverà la quarta stagione di Stranger Things? Impossibile dirlo. L’evoluzione della serie è un salto nel buio, un po’ come le escursioni extrasensoriali di Undi, tanto somiglianti alle passeggiate extraterrestri di Scarlett Johansson in Under the Skin di Jonathan Glazer (2013). “And when the night is cold and dark / You can see, you can see light”, canta Corey Hart in Never Surrender, canzone contenuta nell’episodio di apertura. Mai arrendersi, my friend, anche quando un ‘Mind Flayer’ ti alita sul collo. La lotta del Bene contro il Male è una storia infinita, baby.
P.S. E ribadiamolo: il cast di Stranger Things, per affiatamento e performance individuali, è uno dei più spettacolari, convincenti e coinvolgenti di sempre. Si, di sempre.
CONSIGLIATA A CHI: ha sempre desiderato scroccare gelato gratis, usa ancora i walkie talkie, ricorda con affetto le spalline dei vestiti.
SCONSIGLIATA A CHI: non ne può più del revival, detesta le applicazioni che fanno ringiovanire o invecchiare di dieci anni, ricorda con orrore le spalline dei vestiti.
PERCORSI DI LETTURE E DI VISIONI PARALLELE: Se siete interessati all’effetto-nostalgia, consigliamo i libri citati nella recensione. Se volete riconciliarvi con il cinema per adolescenti Anni Ottanta, c’è l’imbarazzo della scelta. Noi, vi scodelliamo tre titoli ultraclassici: Tron (1982), Wargames (1983) e Navigator (1986).
TITOLO ORIGINALE: Stranger Things 3
NUMERO DI EPISODI: 8
DURATA DEGLI EPISODI: 50 minuti l’uno, tranne l’episodio finale di un’ora e 17 minuti
DISTRIBUZIONE originale: Netflix
DATA D’USCITA: 4 luglio 2019
UN’IMMAGINE: la camicia “fantasia” indossata da Jim per invitare a cena Joyce. Alzi la mano chi non ne ha avuta una uguale.