Il quarto film di J.C.Chandor, dopo il debutto di Margin Call, dedicato alla crisi dei subprime, il solitario All is Lost con Redford disperso in mare e il solido dramma criminale 1981: indagine a New York, è prodotto da Netflix, che si è incaricata di portare sullo schermo la storia che il Premio Oscar Mark Boal aveva scritto, quasi dieci anni fa, per Kathryn Bigelow, subito dopo The Hurt Locker.
Allora i protagonisti avrebbero dovuto essere Tom Hanks e Johnny Depp, con la Paramount a spalleggiare il progetto.
Dopo molti ripensamenti, Triple Frontier è finito nelle mani di Chandor, che ha riscritto il copione originale e coinvolto nella partita il suo fidato Oscar Isaac, protagonista nei panni di Pope, che lavora come contractor privato in Colombia, cercando di smantellare la rete del narcotraffico gestita dall’inafferrabile Lorea.
Quando una sua informatrice gli rivela la posizione del boss, nascosto nella giungla in una casa fortezza, che ha trasformato in un’enorme cassaforte per il narcotraffico, Pope decide di mettere assieme un piccolo team, composto da suoi ex-commilitoni, per fare una ricognizione e dare l’assalto a Lorea.
Della squadra fanno parte Redfly, che cerca di fare il venditore immobiliare in patria, senza fortuna, dopo essersi separato dalla moglie, il pilota Catfish, che ha perso la licenza per una brutta storia di droga e i due fratelli Ironhead e Ben, quest’ultimo diventato un lottatore di MMA.
Assieme, i cinque uomini, armati fino ai denti, cercheranno di fare il colpo grosso, dando una svolta alle loro vite.
Il film di Chandor soffre di quella che possiamo ormai definire la sindrome Netflix, ovvero una pre-produzione affrettata, nella quale la fase decisiva di riscrittura e messa a punto dello script sembra contare sempre di meno, rispetto all’identificazione di un soggetto interessante, di un regista di comprovata affidabilità e di un cast, che possa risultare attraente per l’algoritmo che sembra governare le scelte e i suggerimenti di visione del gigante dello streaming.
Nonostante Chandor abbia affermato, in questo caso, di aver lavorato a ben 42 riscritture del materiale originale di Boal, Triple Frontier avrebbe dovuto forse restare uno di quei progetti sfortunati, che riempiono i cassetti dei produttori e le cronache dei giornali di settore, alimentando un facile rimpianto.
Persino la zona geografica a cui il titolo rimanda, tra Argentina, Brasile e Paraguay, è stata interamente bonificata e non è più il crocevia dei traffici di droga sudamericani.
Nella realtà, ben ha fatto la Bigelow ad abbandonare il progetto e a dedicarsi a quello che rimane probabilmente il suo capolavoro, ovvero Zero Dark Thirty.
Questo soggetto, rimaneggiato sostanzialmente da Chandor, che alla fine risulta co-sceneggiatore del film, è un’avventura che ricorda ancora una volta l’archetipo su cui tutte queste storie di amicizia e avidità sono ricalcate, ovvero Il tesoro della Sierra Madre di John Huston.
Il colpo della vita tentato dal gruppo di soldati, delusi dalla loro vita, al ritorno in patria, è un clichè piuttosto vecchio. Peraltro, nonostante Chandor dedichi i primi 45 minuti alla presentazione dei personaggi e alla messa a punto del colpo, tutto rimane sempre in superficie: le motivazioni di Pope sono sempre opache, quelle degli altri assai più prosaiche e contingenti, ma nel complesso l’impresa appare subito improbabile.
Il film poi si muove lungo binari ben sperimentati, che prevedono un equilibrato alternarsi di sorprese, cadute, fughe e approdi, sempre indeciso se affondare pessimisticamente i suoi anti-eroi criminali o se assecondarne i piani.
La solidarietà tra di loro non sarà mai messa alla prova, l’avidità non sarà mai davvero in discussione, la natura delle loro azioni è oggetto di qualche dialogo scontato e consolatorio, che nulla aggiunge ad un film che si muove sempre lungo una strada poco coraggiosa.
A Chandor, oltre al capolavoro di Huston bisognerebbe far rivedere almeno un altro paio di film altrettanto seminali, ovvero Il salario della paura di Friedkin e l’altrettanto straordinario Soldi Sporchi – A simple plan di Raimi, che poneva i suoi personaggi di fronte ad una serie di scelte morali, che incrinavano costantemente i loro desideri e il loro ‘semplice piano’.
Le psicologie dei cinque personaggi sono abbozzate e poco di più, il loro ‘nemico’ non è interno al gruppo, dove le dinamiche restano piuttosto lineari, segnate da un’amicizia virile, molto old style, ma non è mai neppure esterno: questo fantomatico Lorea appare solo in un paio di scene e non è neppure una minaccia dopo il colpo. Difficile parteggiare anche per qualcuno di loro, muovendosi in un limbo di motivazioni deboli e opache, per lo più.
E’ semmai il caso a frapporsi al loro successo, ma davvero in modo del tutto episodico, senza mai che si senta sotto traccia la forza del destino. Il tema della sopravvivenza e dell’adattamento alle circostanze è centrale nella riflessione di Chandor, ma questa volta l’arco narrativo è davvero troppo telefonato, per essere davvero coinvolgente.
Dovremmo forse empatizzare per cinque ex soldati che uccidono a sangue freddo e si imbarcano in una rapina scombinata e suicida, per puro spirito avventurista? Per sentirsi vivi ancora?
Persino il finale rimane aperto, a mitigare un senso di sconfitta che Chandor cerca di evitare ad ogni costo, depotenziando anche il valore drammatico di un film, nel quale dei suoi personaggi ci importa sempre meno, mano a mano che si inerpicano sulle Ande.
Se Isaac e Hunnam ci mettono almeno un po’ di credibilità e convinzione, Affleck è al suo minimo espressivo e Pascal senza baffi attraversa la storia senza lasciare tracce. A Hedlund è toccato il ruolo del picchiatello un po’ tonto, a cui vengono riservati tutti gli alleggerimenti della storia. Un po’ troppo poco.
Un’altra, ennesima, occasione mancata, firmata Netflix.