La paranza dei bambini

La paranza dei bambini ***

Il quarto film di Claudio Giovannesi, La paranza dei bambini, è l’adattamento del romanzo omonimo scritto da Roberto Saviano del 2016. Dopo aver portato Fiore alla Quinzaine di Cannes, il suo nuovo lavoro debutta in concorso alla 69° Berlinale.

Giovannesi, un triennio a Blob, diplomato in regia al centro sperimentale, due documentari all’attivo, oltre ad una lunga gavetta, culminata nella seconda stagione di Gomorra, ha sempre raccontato, fin dal suo esordio con La casa sulle nuvole e poi ancora con Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, storie di giovani e giovanissimi, costretti a fare i conti con la propria eredità culturale, geografica e sociale, cercando di evadere dalle maglie troppo strette del pregiudizio, fino a sfidare apertamente il proprio destino.

Il suo cinema è capace però sempre di uno sguardo gentile, compassionevole, onesto verso i suoi personaggi, che vivono inevitabilmente un percorso di trasformazione e di crescita.

La paranza dei bambini se è certamente debitore del miglior cinema di genere americano e delle sue riuscite recenti derivazioni italiane, soprattutto televisive – di cui pure Giovannesi è stato parte essenziale – è tuttavia sempre portatore di una sensibilità emotiva diversa, di una cifra personale, capace di evitare ogni moralismo, ogni retorica, ogni maniera.

La capacità di dirigere i suoi giovanissimi attori con un naturalismo diremmo pasoliniano, che fa da giusto contraltare ai meccanismi narrativi tradizionali, ne fanno un autore ormai pienamente consapevole e coerente nel suo percorso creativo.

Siamo nel Rione Sanità a Napoli, ed è qui che conosciamo i protagonisti di questa storia: Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò, decisi a tutto, pur di smuovere lo status quo opprimente che regna sul loro quartiere.

La vecchia famiglia degli Striano è decimata e il potere è passato ad un nuovo padrino, che impone severamente le sue regole sul quartiere.

Il quindicenne Nicola, che vive proprio di fronte al grande palazzo degli Striano, ormai chiuso e quasi interamente disabitato, non è in grado di pensare una Napoli diversa da quella messa sotto scacco dalla criminalità organizzata, ma può invece immaginare un rapporto diverso con il suo quartiere.

Una sera conosce Letizia, una ragazza dei Quartieri Spagnoli, la accompagna sino all’ingresso di una grande discoteca, ma lui e i suoi amici rimangono fuori, perchè per entrare ci vogliono i soldi per un ‘tavolo’.

Nicola e gli altri si fermano poi a guardare le gioiellerie con i rolex esposti e i negozi di abbigliamento sportivo, con le ultime sneakers e le magliette firmate.

Affamati di vita, sì, come qualsiasi altro adolescente, ma anche di potere, rispetto e soldi, necessari per poter appagare il proprio sguardo desiderante: le armi, i vestiti, il lusso pacchiano, che sono la vera cartina di tornasole estetica e morale di un microcosmo criminale.

Una piccola rapina improvvisata li condurrà sino al boss di quartiere: Nicola vuole un lavoro e non c’è niente di meglio che spacciare erba fuori dall’università.

Così pian, piano, comincia a conoscere tutti gli ingranaggi dello spaccio. Quando la polizia irrompe ad un matrimonio e si porta via il padrino e tutti i suoi associati, Nicola intravvede una possibilità: grazie ai due fratelli Striano, adolescenti come lui, e all’aiuto di un vecchio capo, ridotto agli arresti domiciliari, riuscirà a mettere la mani sul rione Sanità.

Come spesso accade nei lavori di Saviano, l’orizzonte è chiuso sul milieu criminale e non ci sono mai via d’uscita, nè punti di vista alternativi.

Eppure questa volta vediamo una retata della polizia che decapita il potere locale, vediamo un vecchio boss costretto ai domiciliari, percepiamo gli effetti delle azioni di contrasto, che pure sono una variabile non indifferente nella vita criminale.

Giovannesi racconta quasi solo l’ascesa di Nicola e del suo piccolo manipoli di quindicenni fedelissimi e lascia il finale aperto, proprio nel momento in cui quella spirale di morte ha lambito prima e travolto poi lo stesso protagonista, capace di una scalata repentina e imprevedibile.

Ma nessuno è veramente intoccabile, nessuno è estraneo al meccanismo perverso della violenza e delle armi.

Non c’è solo romanzo criminale nel film di Giovannesi, c’è anche un interessante lavoro sullo sguardo con cui i personaggi osservano la loro città, da cui desiderano al contempo essere guardati.

C’è un momento magico, nel film di Giovannesi, quando Nicola decide di far colpo su Letizia, la ragazza di cui è innamorato, portandola all’opera, al teatro San Carlo, in un palco di velluto rosso, dove osservare, essere osservati e così riconosciuti, finalmente parte di un mondo nuovo, lontanissimo da quello di origine.

Quello sguardo lo ritroviamo quando Nicola accompagna la madre ad acquistare i pacchianissimi e barocchi mobili nuovi per la loro casa, quando il protagonista si affaccia dal balcone di casa e viene salutato dai commercianti della piazza e poi ancora nella discoteca, dove tutti i tavoli dei privè sono occupati dai giovani criminali dei diversi quartieri della città: essere lì, vuol dire essere finalmente riconosciuti, vuol dire essere parte del sistema.

In un mondo di soli figli, senza cultura e senza memoria, in cui ci sono solo motorini che sfrecciano e pallottole ancor più veloci e imprevedibili, un’intera generazione pian piano dissipa se stessa e brucia quasi senza accorgersene. Non è un caso allora che il titolo internazionale del film sia Piranhas.

L’anno scorso la Berlinale ospitava un altro romanzo di formazione criminale, La terra dell’abbastanza dei fratelli d’Innocenzo, quasi a voler indicare un percorso, tra autorialità e genere, che sta segnando questa recente stagione del cinema e della televisione italiana.

Qualcuno, in Italia, sembra essersi già stancato di quella che appare invece come una delle poche espressioni popolari della nostra produzione, capaci di trovare ascolto anche all’estero. Magari sono gli stessi che hanno invece osannato il pessimo Primo Re di Rovere un paio di settimane fa, in nome di una riconquistata autorevolezza del cinema di genere.

Giovannesi, pur restando sempre accanto ai suoi personaggi, con una macchina a mano di stampo verista, limita al minimo la violenza e il sangue e non abusa mai della struttura di genere, preferendo costruire un altro racconto sull’adolescenza negata.

Il finale rimane volutamente sospeso, lasciando i suoi personaggi proprio nel momento in cui sembra cominciare la caduta.

Da non perdere.

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