La biografia cinematografica dei Queen ha una storia produttiva piuttosto lunga a travagliata che comincia nel 2010 quando il chitarrista Brian May annuncia l’avvio del progetto con Sasha Baron Coen nei panni di Freddie Mercury e la sceneggiatura di Peter Morgan (Frost/Nixon, Il maledetto United, The Queen, Rush).
Poi l’attore si fa da parte, per divergenze artistiche con la produzione e anche Ben Whishaw, chiamato a sostituirlo, abbandona il progetto. Nel frattempo viene ingaggiato Brian Singer per dirigerlo e la sceneggiatura viene riscritta dal neozelandese Anthony McCarten, una sorta di specialista in biopic: suoi infatti sono La teoria del tutto, L’ora più buia ed il prossimo film su John Lennon e Yoko Ono.
Rami Malek, dopo il successo di Mr.Robot, viene scelto per interpretare Farrokh Bulsara, il giovane inglese nato a Zanzibar, da una famiglia parsi, che, abbandonato il lavoro di facchino all’aeroporto di Heathrow, diventerà il frontman degli Smile e poi dei Queen nell’anno di grazia 1970 col nome di Freddie Mercury.
Ma i contrattempi non finiscono mai e sul set del film, Singer viene licenziato dopo aver abbandonato la produzione per motivi familiari e Bohemian Rhapsody viene completato da Dexter Fletcher, a cui il progetto era stato offerto in passato e che era al lavoro su un film dedicato ad un’altra delle eccentriche rockstar inglesi degli anni ’70, Elton John.
Dall’incastro di tutti questi piccoli fallimenti nasce un film inevitabilmente tradizionale, nella messa in scena della parabola artistica e personale di uno dei grandi performer del XX secolo. Aperto e chiuso dalla memorabile esibizione dei Queen al Live Aid, il concerto in favore delle popolazioni etiopi, colpite da una carestia straordinaria nel 1985, Bohemian Rhapsody segue, in modo piuttosto prevedibile, soprattutto l’evoluzione personale e professionale di Mercury, lasciando gli altri tre del gruppo, May, Deacon e Taylor abbastanza in disparte.
Ai primi successi underground, seguono i dischi e i contratti discografici, fino all’incisione di A night at the Opera, uno dei loro album capitali, quello in cui l’estro compositivo di Mercury e il suo lirismo trovano la sintesi perfetta nel pezzo che dà il titolo al film: assistiamo alle lunghe session in studio di registrazione e poi ai litigi con la EMI, che non vuole sceglierlo come singolo, essendo un pezzo di sei minuti, che difficilmente le radio avrebbero trasmesso.
Poi la carriera dei Queen esplode, di pari passo con l’allontanamento di Mercury da Mary Austin, la sua prima ragazza e la compagna e amica, che gli resterà accanto per tutta la vita, anche dopo la confessione della bisessualità del protagonista.
Accanto a Mercury si alternano amanti di una notte e compagni dall’influenza nefasta: come sempre accade, la parabola dell’artista sensibile e maledetto, traviato dalle cattive compagnie, prevede eccessi di alcol e droghe, megalomania, isolamento dalle persone care, dai manager storici e infine dal suo stesso gruppo.
Toccato il fondo si può solo risalire, ma il tempo non basterà a Freddie Mercury. Ed allora giustamente il film termina – dopo molti eventi abbondantemente romanzati e alterati – con il momento più alto della sua carriera e di quella dei Queen.
La sera del 13 luglio 1985, davanti ai 75.000 di Wembley e di fronte ad un audience televisiva mondiale, i Queen rubano il palco allo sterminato cast del Live Aid, che comprendeva, tra Londra e Philadelphia, i Led Zeppelin, Clapton, Santana, Dylan, Sting, i Dire Straits, gli U2, Elton John, Neil Young, gli Who, Bowie, Madonna, Mick Jagger e Paul McCartney, tra gli altri.
Eppure su quel palco sembrano esserci stati solo i Queen: l’energia melodrammatica di Mercury si fonde con il meglio del loro repertorio, che pare composto proprio per essere suonato e cantato davanti al pubblico di uno stadio.
Il film dedica a quella performance una ricostruzione molto accurata, tuttavia, se possiamo perdonare a Singer e McCarten una certa impaginazione retorica nel resto del film e la scelta di non rischiare nulla, smussando le asprezze e gli eccessi di Mercury, in un film di fan service assoluto, quello che non possiamo perdonare ai due autori è la scelta di salvare l’audio dei venti minuti del Live Aid, ricostruendo invece la resa visiva, di quello che invece era già un reperto assolutamente perfetto, che non aveva bisogno di alcuna nuova messa in scena.
Se Malek se la cava nel resto del film, pur pesantemente truccato, per assomigliare al cantante morto di AIDS nel 1991, è proprio nel momento dello show, che la sua interpretazione mostra un po’ la corda e non per colpa sua.
Rifare quel momento iconico, cristallizzato da una diretta televisiva e dall’home video, che venti anni dopo ha fissato per sempre l’unicità di quel lungo medley tra le canzoni dei Queen, è davvero un atto di superbia, che mostra tutta la superficialità dell’operazione.
Se si può raccontare il Mercury uomo e artista, immaginare di rifare il Mercury performer, proprio all’apice della sua travolgente fisicità iconica, è impresa talmente stupida, da rompere persino quel filo emozionale che pure il film, nella sua struttura semplice e risaputa, riesce a costruire.
Grazie anche al montaggio molto creativo e rutilante di John Ottman, che ha verosimilmente lavorato con Dexter Fletcher e non con Brian Singer, costruendo un ritmo che avanza implacabile come la sezione ritmica di una band, il film scorre veloce e trascinante verso il suo epilogo.
Paradossalmente però è proprio alla fine che il film di Singer mostra i suoi limiti più grandi: che non sono neppure quelli di una biografia un po’ anestetizzata e filtrata, attraverso la lente nostalgica dei membri superstiti band, ma quelli – più radicali – di un cinema, che diventa copia pedissequa e sfuocata non del reale, ma della sua originaria rappresentazione per immagini.
Una copia conforme, che non dà mai neppure la sensazione di farsi gioco cinefilo consapevole, solo sciatta ripetizione.
Il film, come spesso accade a quelli che raccontano una leggenda musicale, funziona perfettamente sul piano emotivo ed il finale coincide con il climax narrativo così diligentemente preparato sin dalla prima scena.
Grande successo negli Stati Uniti e in tutto il mondo, testimonianza di una musica capace ancora di emozionare.