Venezia 2015. Black Mass

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Black Mass **

Boston, 1975. L’agente dell’FBI John Connolly ritorna a lavorare nella sua città natale.

Mentre la città è ancora sotto il giogo della criminalità italo-americana, la gang sanguinosa e irlandese di Winter Hill comincia a dettare legge a South Boston, guidata da James ‘Whitey’ Bulger.

Billy Bulger, il fratello di James, è eletto al Senato degli Stati Uniti d’America, ultimo passo di una carriera politica prodigiosa.

John, Jimmy e Billy sono cresciuti assieme nei quartieri cattolici e popolari.

Stringeranno un patto faustiano e duraturo che consentirà a tutti di emergere e prosperare nei quindici anni successivi. Connolly sarà il poliziotto eroico capace di sgominare la mafia, la gang di Winter Hill imporrà la sua influenza su ogni attività criminale della città, con la forza delle armi. Il senatore Bulger diventerà il politico più potente del Massachussets. Ma ogni cosa finisce…

Il terzo film di Scott Cooper, dopo i pregevoli Crazy Heart e Il fuoco della vendetta, è il suo più deludente e modesto.

Ripercorrendo sostanzialmente la stessa storia che ha ispirato The Departed di Martin Scorsese, Cooper gira un film di gangster di ieratica classicità, privo di un qualsiasi scarto drammatico e di qualsiasi ritmo.

Il suo non è un film di gangsters, ma un melò familiare piuttosto fiacco, incapace persino di sfruttare le potenzialità dell’ambientazione nella Boston degli anni ’70.

Affidadosi ad una regia invisibile, che dovrebbe esaltare la performance dei suoi protagonisti, il film sconta invece la mancanza di un qualsiasi sviluppo drammaturgico.

I personaggi non seguono alcun percorso: Bulger è uno spietato assassino, individualista e irascibile, che preferisce sempre la via più semplice, dal primo minuto all’ultimo. L’agente dell’FBI è corrotto fin nel midollo e non sembra avere non solo alcun senso della giustizia, ma neppure il più piccolo scrupolo, spinto solo da avidità e fama.

Sullo sfondo rimane il senatore Bulger, che non sembra condividere gli affari loschi del fratello e la cui presenza nel film è puramente ornamentale. Non a caso il suo personaggio era stato completamente omesso nel copione che William Monahan aveva scritto per Scorsese.

L’unica nota positiva è il ritorno alla recitazione di Johnny Depp, dopo una lunga pausa contraddistinta da ruoli manieristi e svogliati. Coperto da un make-up pesantissimo e certamente eccessivo, che ne limita l’espressività e lo costringe in una sorta di maschera immutabile nel corso dei dieci anni attraversati dal film, il suo Bulger è luciferino e cadaverico, ma sembra solo un paranoico all’ultimo stadio, non un gangster temuto e sanguinario, capace di tenere in scacco l’FBI per un paio di decenni.

Eppure Cooper non riesce neppure a sfruttare l’inquietante trasformazione del suo protagonista, disponibile per una volta a rimettersi in gioco davvero.

Se questo è il cinema di genere con lo sguardo d’autore che Barbera ha dichiarato di aver cercato per la Mostra, ci dev’essere stato certamente un problema di vista e di prospettiva.

Inutile.

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