Venezia 2015. Everest

Everest Poster

Everest **

Film d’apertura della 72° Mostra del Cinema di Venezia, Everest di Baltazar Kormakur è tratto dal diario di Jon Krakauer della spedizione guidata da Rob Hall nel 1996.

Il giornalista e scrittore di Into the wild, partecipò in prima persona alla scalata assieme ad un folto gruppo di dilettnti allo sbaraglio, convinti dall’esperto Hall a provare il brivido degli ottomila, ovviamente dopo aver pagato 65.000 dollari per il disturbo.

Come spiega Hall all’inizio superata una certa altitudine il corpo comincia lentamente a morire, privo di ossigeno e assalito dal freddo.

Ciononostante il gruppo degli scalatori della domenica, composto tra gli altri da un texano sbruffone, da un postino e da una minuta giapponese capace di raggiungere tutti gli altri ottomila della terra, è deciso ad affrontare l’impresa.

Sul campo base però il gruppo di Hall trova molti altri aspiranti alla vetta. Un gruppo della IMAX, una spedizione concorrente guidata da Scott Fischer e altri ancora, tutti decisi a salire il 10 maggio, grazie anche agli sherpa nepalesi.

Naturalmente le cose non andranno come previsto e la hybris dell’uomo nei confronti della natura provocherà molte vittime.

Sulla vetta infatti sta per scatenarsi una spaventosa tempesta e le scorte di ossigeno non sono sufficienti.

Il film di Kormakur, girato in parte in Nepal ed in parte sulle Alpi ed a Cinecittà è un classico bergfilm pieno di volti noti, da Jake Gyllehaal e Jason Clarke a Josh Brolin e Keira Knightley, da John Hawkes a Robin Wright.

Ma è la montagna la vera protagonista, inquadrata nella sua imponenza e nelle sue insidie, nella sua estatica magnificenza e nella sua crudele ferocia.

Il problema di Everest, così come di molti altri film che raccontano imprese sconsiderate e sfide impari dell’uomo contro le avversità della natura, è che mettono in scena personaggi fondamentalmente stupidi, mossi da volontà travisate o forse da un malinteso senso dell’avventura.

Curiosamente una delle scene chiavi del film è quella in cui il personaggio Krakauer chiede agli altri partecipanti, la notte prima della scalata, il motivo che li ha spinti ad arrivare sino a quel punto. Le risposte latitano, restano frasi smozzicate, desideri incompiuti, rifugio di una vita insoddisfacente.

Non siamo di fronte a novelli Ulisse o a prometeiche volontà di scoperta. Siamo di fronte ad un gruppo di disperati che cerca di dare un senso pur che sia, ad un’esistenza per lo più vuota.

Perché avventurarsi da impreparati sulla vetta dell’Everest? La domanda rimane nell’aria. “Because it’s there”è la risposta tautologica che il gruppo si dà.

Lo stesso interrogativo risuona nella testa di coloro che vedono il film, purtroppo: perché raccontare proprio questa storia? Che cosa vuol dirci Kormakur? Che idea del mondo vuole comunicarci?

Non resta molto dopo le due ore di Everest. La regia invisibile ed il 3D, come sempre del tutto inutile, lasciano spazio ai personaggi. Ma nessuno di questi lascia il segno. Non il mercenario Hall che vende la sua passione e le se abilità, sfidando la morte a caro prezzo. Non il suo collega Fischer, sbruffone e sconsiderato. Non i partecipanti alla scalata di cui abbiamo già detto.

Rimane davvero solo il senso dello spettacolo, la magia circense del cinema, la bellezza della natura dei paesaggi.

“The last word always belongs to the mountain” dice uno dei personaggi. Non è una novità.

Everest 2

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