Foxcatcher ***
Ornithologist, philatelist, philanthropist!
Il terzo film di Bennett Miller dopo Capote e L’arte di vincere – Moneyball, prende a prestito, ancora una volta, una storia vera.
Quella dei fratelli Mark e Dave Schultz, medaglie d’oro alle olimpiadi di Los Angeles, per la lotta greco romana, coinvolti nei progetti sportivi di un ricco industriale, l’ultimo della dinastia dei du Pont.
David e Mark sono cresciuti senza una famiglia, contando solo su stessi e sulle proprie forze. Dave ha sempre rappresentato, per il più piccolo Mark, non solo un fratello maggiore, ma un mentore, un esempio fuori e dentro il campo di gara. Una sorta di padre putativo.
Dopo la doppia vittoria di Los Angeles, i due sono in procinto di prepararsi ai campionati mondiali in Francia, quando nella loro piccola e desolata vita di provincia, arriva il milionario John E. du Pont, appassionato di lotta e desideroso di fondare un suo team, capace di imporsi nel mondo sportivo ed agli occhi di una madre severissima e silenziosa.
John è una figura enigmatica, che il film non aiuta a comprendere sino in fondo. Miller ci mostra tutto il peso di un’eredità controversa, fondata sulla polvere da sparo e prosperata con la chimica e le armi. Lontano dallo stile nobiliare dei du Pont, John non si interessa di ippica e charity, ma preferisce il mondo rude e semplice della lotta.
Solitario ed introverso, vive rinchiuso in una sorta di castello, circondato da solerti factotum. Non ha amici, neppure quelli che la madre ha comprato per lui…
Quando Mark accetta la sua offerta e si trasferisce nella magione dei du Pont, mettendo in piedi un team per i mondiali, tra i due nasce un rapporto più complesso di quello che di solito si instaura tra coach ed atleta.
Senza averne le capacità, John finisce per sostituire Dave nella vita di Mark, ma lo stile di vita di un milionario è lontano da quello che dovrebbe seguire un lottatore.
Mark va fuori controllo, non si allena, esagera con la cocaina e col peso, fino a quando, ai trial preolimpici, rischia l’esclusione.
A salvarlo arriva provvidenziale, il fratello Dave, assunto in extremis da du Pont, per cercare di mettere in piedi una squadra in grado di vincere.
Fra i tre i rapporti finiscono per degenerare. L’invidia, il risentimento, l’amicizia tradita ed i rapporti di sangue pretendono il loro tributo.
Il film di Bennett Miller, scritto con ammirabile misura e grande economia narrativa da Dan Futterman e Max Frye, è un’altra ricognizione nell’America profonda. Dopo i delitti che ispirarono Truman Capote ed il suo A sangue freddo, e la matematica applicata al baseball, questa volta il regista fa i conti con l’ossessione tutta americana per la vittoria, per la legacy sportiva e con l’immagine vincente, che occorre sempre trasmettere di sè.
Il film è pieno di bandiere, patriottismo, inviti a difendere la libertà… con ogni arma. Specchio inquietante degli anni ’80, Foxcatcher lascia la violenza sotto traccia, nella stasi apparente della magione dei du Pont: Miller racconta la voracità insaziabile del capitale e della nazione, capaci di corrompere con la sola forza della lusinga.
Il suo è paradossalmente anche un film d’amore e di morte.
Amore tra fratelli, tra madri e figli, ma soprattutto amore per il successo: tutti lo cercano, senza riuscire piu’ a trovarlo, perche’ il loro destino sembra spingerli continuamente sull’orlo dell’abisso e del fallimento.
E in quegli insistiti piani fissi sul protagonista, cova il senso di morte che aleggia costantemente sul film.
La magione dei du Pont è già mausoleo decadente, tomba del sogno americano, se mai ve n’è stato uno.
Miller indaga su una delle grandi famiglie americane e sui suoi silenzi. Evita fortunatamente facili psicologie e risposte deterministiche, lasciando i moventi della tragedia in un limbo di dubbio e incertezza.
Preferisce raccontare in modo piano, oggettivo, aiutato dalla splendida fotografia invernale di Greig Fraser, che ne asseconda il ritmo contemplativo.
La musica di Rob Simonsen e Mychael Danna sottolineano perfettamente il clima di inquietudine malsana, che cresce attorno ai protagonisti, anche grazie ad uno score sonoro di grande suggestione.
La scelta dei protagonisti è inconsueta eppure indovinatissima. Steve Carell, truccato sino a renderlo irriconoscibile, è un John du Pont silenzioso e mellifluo, i cui pensieri restano sempre misteriosi. La sua e’ una presenza costantemente minacciosa.
E’ un uomo abituato ad usare gli altri uomini da una posizione di forza. E questo traspare in ogni momento, nonostante le intenzioni amichevoli con i due fratelli. Carell con il tono della voce, lo sguardo sfuggente, il sorriso a meta’ riesce a restituire al suo personaggio tutta la rapacita’ del capitalismo americano. Non e’ davvero un caso che il team di chiami Foxcatcher.
Mark Ruffalo è come sempre efficacissimo e misurato nel ruolo di Dave, mentre Channing Tatum, usa tutta la sua fisicità nella parte di Mark, incapace di esprimere i suoi sentimenti in altro modo. Il suo sguardo malinconico ha il compito di aprire e chiudere il film: lo sguardo di chi non sembra aver mai conosciuto, davvero, la vittoria.
Uno dei migliori film del concorso.