A view from the cellar: Speciale Breaking Dead

La-Notte-dei-Morti-Viventi-1968

« Io sono vivo, voi siete morti » (Philip Dick, Ubik)

Vivo o morto.

Dicotomia pura, non nel mio mondo.

E non solo per la risaputa presenza sul pianeta, e sicuramente anche nel vostro condominio, di tantissimi morti che credono di essere vivi.

Vivo o morto non può più essere una dicotomia sin dal lontano 1968, quando George Romero ha reso nota al grande pubblico l’esistenza, e la fame atavica, dei morti viventi.

Gli zombi, i ritornanti, gli azzannatori sono ormai una texture nel mio immaginario, non posso fare a meno, di fronte a qualsiasi decesso cinematografico improvviso, di desiderare/temere di veder muovere le dita del cadavere, o spalancare improvvisamente gli occhi e la bocca e scattare in direzione della giugulare più vicina.

Risorto o Zombie potrebbe essere una neodicotomia? E se fossero la stessa cosa? Bel casino, considerato anche il fatto che durante il cattolico rito della comunione c’è il tizio in tunica che offre pezzetti di corpo, quindi in controtendenza: un vivo che in stato di apparente trance apre la bocca per mangiare un risorto. Confesso che da piccolo, in veste di chierichetto, facevo indigestione di ostie non ancora consacrate. Di conseguenza per paura di ritorsioni, forse, non ho avuto mai il coraggio di entrare in un cimitero di notte.

Ma adesso una passeggiata la faccio, girando a caso tra le file di lapidi. Mi soffermo su quelle scoperchiate da poco, seguendo poi le orme che dalle tombe portano al grande o al piccolo schermo.

1. Nostalgia canaglia

Creature repellenti in via di decomposizione, che quasi sempre si muovono lentamente e vogliono solo mordere masticare e inghiottire i vivi. Le certezze della (non) vita. Finchè non arriva il nostro amico John Ajvide Lindqvist, geniale narratore scandinavo, che con L’estate dei morti viventi crea lo Zombi nostalgico, larva innocua che vuole solo tornare indietro, sedersi sulla poltrona di casa e guardare la tv vicino ai suoi cari, mentre brandelli di carne putrescente si staccano e cadono per terra imbrattando la moquette. Involucri malinconici, che invece di sbranare i vivi, arrecano danni alle loro coscienze. Non è mica facile gestire un’epidemia di ritornanti così ingombranti.

L’estate dei morti viventi diventerà un film, molto probabilmente un brutto film. Spero di essere smentito, ovviamente.

Il tema del romanzo di Lindqvist è curiosamente sviluppato anche, non so quanto per caso,  in un film francese di qualche anno prima, Les Revenants di Robin Campillo, abbastanza pallosetto ma interessante per l’attenzione eccessiva che la sceneggiatura rivolge alla gestione politica e sociale del fenomeno dei Ritornanti: bisogna trovar loro un lavoro, reperire le risorse necessarie, e sopratutto capire perchè sono tornati se pensano solo ad andarsene: di notte infatti, cercano tutti di scappare.

Un filmetto che ha comunque ragione di esistere, non foss’altro che per la sua progenia: la serie tv che ha partorito nel 2012, ottimo prodotto che destruttura lo spunto del film di Campillo, arricchendolo di personaggi molto più “cinematografici” e affascinanti. Otto puntate che volano via come una seduta di ipnosi, stracolme di suspance narcotica e appiccicosa, nelle quali la parola più frequente è “resurrezione” ma qui le ostie c’entrano poco e non si sente assolutamente alcun tanfo di fanatismo religioso.

Quello che invece con le orecchie si sente eccome, è il commento sonoro alla serie realizzato da uno dei miei gruppi preferiti, i Mogwai. Non esagero, anche se amo esagerare, se dico che Les revenants senza la loro colonna sonora sarebbe stata solo una serie tv di buon livello. Con la musica dei Mogwai diventa una serie tv vicinissima al capolavoro.

2. Woodbury is my Zion

Ma lo Zombie esistenzialista, sperduto e nostalgico rappresenta solo una deviazione: la strada maestra è un’altra, disseminata di mandibole scattanti e occhi bianchi, umani vivi spietati e armati fino ai denti.

E zombie che sono carne da macello, mostri da abbattere prima che il loro morso ti contagi. Comunità improvvisate, unite dal sacro collante della sopravvivenza, che si combattono per la conquista di avamposti più sicuri, roccaforti in cui rinchiudersi per proteggersi dal mostro e ricostruire un simulacro di società.

Il leader, il vecchio saggio, il bambino-guerriero, la donna-angelo della morte, il cattivo più carismatico che si sia mai immaginato, e una valanga di metafore che non finisce più, tanto semplici quanto efficaci.

E così The walking dead, fumetto superlativo, diventa The walking dead, serie tv che non deve morire mai. La sensazione curiosa, riguardo questa serie-evento, è che la presenza dei walkers sembra spesso una sorta di must, della serie “mettiamocene un paio nella pompa di benzina abbandonata, senno’ pare brutto”, perchè sono le vicende dei sopravvissuti ad aver assunto ormai caratteri epici, l’apocalisse è degli umani-umani, non dei risorti (oops…) e devo confessare di essermi comportato, in almeno un paio di occasioni, come un tifoso allo stadio, lanciando urla di esultanza incontrollata sopratutto quando è la spada di Michonne a colpire.

walking-dead-michonne

Si parte dalla fine, tutto è definitivamente rovesciato, persino l’idea stessa di libertà: i sopravissuti, per continuare a sopravvivere, devono segregarsi nelle case, nei carceri, ricostruendo il prototipo made in USA della Gated Community, direttamente dal Far West (i villaggi dei Mormoni) con fisiologiche ed apocalittiche derive storiche (la fattoria della Manson family, il ranch dei Davidiani a Waco, le comunità degli Amish). La comunità va preservata , imbalsamata, non deve crescere, perchè in un mondo senza domani anche la procreazione è una dannazione.

La comunità per eccellenza è Woodbury (TWD Serie 3)

Woodbury, la metastasi del sopravvissuto. Woodbury, come una Pleasantville dell’orrore. La cittadinanza, devota e obbediente al Capo, The Governor. I riti, la versione post- della domenica allo stadio.

I turni e la suddivisione dei compiti.

La città-stato da incubo.

Il simulacro malriuscito di un avamposto. Un cimitero vivente.

3. Una risata vi (dis)seppellirà

Io odio il vocoder, se sento una canzone in cui il vocoder è percepibile, divento blu. Eppure uno dei momenti più esilaranti della storia del cinema deve il suo effetto, anche se non direttamente, al vocoder.

Basterebbe questo frammento a scaraventare The Revenant nell’olimpo dei zombie-movies, ma non è il suo unico fiore morto all’occhiello. Sconclusionato e zoppicante oggetto bizzarro, eccessivo e tanto ambizioso da apparire deragliante, mi ha fatto ridere come pochi, e non è molto distante dalla vetta assoluta di Shawn of the dead.

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La demenza inevitabile dell’essere zombi è materia che si presta più di altre al pericolo-parodia, che risulta tanto più esilarante proprio per gli sforzi di Kerry Prior di realizzare un’opera che non fosse solo parodia.

Risate, risate, risate: benvenuti a Zombieland! Se la mia scandalosa memoria per una volta funziona, con questo film la santissima Trinità dei film-con-Zombi-che fanno-ridere si conclude.

E’ il debutto alla regia di Ruben Fleischer che quattro anni più tardi avrebbe diretto quella inguardabile merdina di Gangster Squad.

Zombieland fa ridere di brutto, e naturalmente la faccia, l’accento e il corpo di Woody Harrelson hanno una grossa responsabilità. Un ritmo da action-movie, una geniale lista di “cose da fare per sopravvivere”, e la presenza di Bill Murray, breve ma esplosiva, fanno il resto.

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4. Il grande fardello

Che voi ci crediate o no, io l’avevo pensato, fantasticato, desiderato anni prima di Charlie Brooker. Quando le immagini del Grande Fratello televisivo cominciarono ad entrarmi in casa senza chiedere permesso (periodo Taricone), io ci vedevo creature mostruose farvi irruzione seminando il panico e disseminando lo studio di brandelli di carne strappata a morsi ai partecipanti.

Ad essere onesti non ricordo se ho pensato nello specifico a Zombi o solo a creature genericamente mostruose, ma l’idea è mia, caro il mio Charlie.

Però Dead Set l’ha creata lui, purtroppo.

Per quanto povera e arrancante, è una serie tv fondata su un’idea geniale, quindi merita perlomeno rispetto. E magari una o due puntate potete vederle, su.

deadset

Le dosi massicce di gore non intaccano l’assunto molto serio alla base della serie: l’umanità è praticamente assente nella stragrande maggioranza dei personaggi, pertanto la trasformazione in zombi  è quasi un passaggio automatico, la naturale evoluzione/semplificazione: belve affamate pronte a fagocitare rivali per un pizzico di celebrità? Eccovi accontentati.

Ora non dovete più far finta di essere bendisposti e civili nei confronti del prossimo, potete e dovete sbranarlo. Bon appetit.

5. Diversamente (e parzialmente) morto

Ovvero la gestione degli zombi da parte di SEL. Dopo il risveglio, dopo l’orrore, vien fuori LA CURA. I parzialmente morti in terapia ritrovano la loro umanità. Anche Kieran, omosessuale, che si era suicidato perchè non voleva più vivere in una società nella quale non si sentiva accettato.

E quindi gli tocca rivivere, zombi depresso e perennemente triste, circondato da metafore e pipponi sui diversi, l’intolleranza, bla bla bla.

Triste è un po’ tutta In the flesh, la serie tv inglese creata da Dominic Mitchell.

teenage zombie in the flesh

Con quella espressione sul viso, poi, Kieran sembrava ripetermi ogni due secondi:

-Perchè mi avete svegliato?

-Perchè mi avete svegliato?

-Perchè mi avete svegliato?

Abbandonata a metà del secondo episodio.

Mi guardo attorno: ci sono ancora molte lapidi da visitare, molto recenti e sicuramente interessanti. Intravedo anche Etnozombies a pochi passi, frutto esotico della colonizzazione post-mortem dell’immaginario, morti viventi africani, anche cubani.

Vorrei restare ma si sta facendo buio, io me ne vado. E cos’è questa musica che sento arrivarmi addosso, sempre più vicina e definita man mano che il sole tramonta?

Dikotomiko

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