Twixt di Francis Coppola. Recensione in anteprima

Twixt **

Eravamo rimasti al bianco e nero di Tetro, al volto di Vincent Gallo e di Alden Ehrenreich, alle luci del traffico in una notte in cui due fratelli si riabbracciavano finalmente, senza più misteri.

Twixt si apre invece su uno scrittore di terz’ordine, Hall Baltimore, impegnato in un viaggio nella provincia americana per presentare l’ultimo romanzo di una lunga serie sulle streghe. La sua ispirazione è ormai perduta.

Giunto in una piccola città, Swann Valley, viene coinvolto dallo sceriffo Bobby La Grange nelle indagini sul barbaro omicidio di una giovane donna, che ha un paletto conficcato nel cuore.

Pressato dalla moglie e dal suo editore, finisce per dare ascolto allo sceriffo, cercando in quella storia lo spunto per un nuovo romanzo che lo trasporti lontano da una routine maliconica.

Nel frattempo, in sogno, fa la conoscenza di V., una giovane e misteriosa ragazza che lo trasporta nel passato, in una continua sovrapposizione di eventi e di piani temporali.

Il suo Virgilio nel mondo delle tenebre non è altri che Edgar Allan Poe, il quale lo spinge a fare i conti con il suo dolore, con i sensi di colpa ed i fantasmi che agitano le sue notti.

La verità sul mistero di Swann Valley conta ben poco.

Dopo un lungo periodo sabbatico, il successo clamoroso della sua winery, ha consentito a Coppola di tornare al cinema con una serie di progetti a bassissimo budget, molto personali e spesso autobiografici. Un’eterna giovinezza e Tetro erano riflessioni coraggiose e inedite sul ruolo del tempo nella creazione artistica e sui rapporti ingombranti con una famiglia, in cui la competizione si giocava tutta nel campo della creatività.

Con quest’ultimo Twixt, Coppola ritorna ancora, come nell’irrisolto Jack, ad uno dei momenti più oscuri e dolorosi della sua vita, cercando di esorcizzare il senso di colpa per la morte del figlio Giancarlo, avvenuta in un tragico incidente in barca, simile a quello messo in scena in una dei momenti più affascinanti del film.

Ma, in fondo, l’autobiografia al cinema interessa poco lo spettatore e persino il critico, se non diventa racconto capace di coinvolgere chi guarda, al di là della curiosità un po’ morbosa e della sana indifferenza, rispetto ad una seduta di autoanalisi.

Twixt cerca di andare oltre la ricognizione del dolore, mettendolo in scena ogni dettaglio, riesumando la tragedia più grande per riconoscerla davvero, in un rituale che finisca per esorcizzarne il senso di colpa.

Non c’è niente di malinconico in Twixt, non c’è ricordo struggente, c’è il tentativo di fare i conti col passato una volta per tutte, mettendo la parola fine ad un dolore per troppo tempo rimosso.

E per farlo Coppola ritorna ancora una volta al cinema, a quel cinema gotico praticato nei suoi esordi con la Factory di Roger Corman ed alle suggestioni cromatiche che pure avevano segnato il suo cinema più sperimentale degli anni ’80.

L’ambizione di fare cinema è sempre altissima e l’apparato iconografico e citazionista è sempre curioso e indovinato, quello che manca a Twixt è la chiarezza narrativa.

Il film vive di meravigliose suggestioni visive, di realtà e sogno, di sapiente uso del digitale, ma si scorda di rendere avvincente e plausibile la sua trama. Per un grande sceneggiatore come Coppola è un peccato imperdonabile, che rende la visione di Twixt un esercizio curiso per cinefili ed appassionati, ma un’esprienza assai faticosa per tutti gli altri.

Persino la suggestiva tesi – comune anche all’ultimo Allen di Midnight in Paris – per cui occorre guardare al passato senza nostalgie malinconiche e senza inutili mitizzazioni, ma per tornare a lavorare sul presente con più consapevolezza, rimane decisamente fuori fuoco, oscurata da un apparato visivo affascinante, ma un po’ troppo invadente.

Twixt è ancora inedito in Italia, dopo l’anteprima al Festival di Torino. Negli Stati Uniti non ha ancora avuto una adeguata distribuzione, così già come i precedenti, e più riusciti, Tetro e Un’eterna giovinezza.

Occorrerà un giorno ragionare anche su questo curioso occultamento della sua ultima produzione, che Coppola si ostina a voler mantenere completamente indipendente, anche da un punto distributivo, condannandola così all’irrilevanza ed all’invisibilità.

Una volta Coppola era l’uomo del compromesso: quello che riusciva a sovvertire l’industria dall’interno, sfruttando le modalità produttive classiche, per gettare un ponte immaginario tra l’industria hollywoodiana e l’arte del vecchio continente, rappresentata dalla Nouvelle Vague, dalla modernità italiana dei Fellini, degli Antonioni, dei Bertolucci e dal Nuovo cinema tedesco.

Dopo la lunga pausa seguita a The rainmaker, l’atteggiamento di Coppola sembra essere cambiato radicalmente, quasi che il rifiuto conclamato dei modi di produzione hollywoodiani fosse diventato ormai irriducibile.

Fare cinema indipendente a basso budget però non può vuol dire rifiutarsi di distribuire le proprie opere: altrimenti il rischio di parlare allo specchio e non più ad un pubblico è pericolosamente vicino.

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