True Grit – Il grinta ***1/2
“They were contemplating a holiday release, and we thought that it seemed to make sense, because it is a young-adult adventure story. As kids, we did see the Disney movies and the kids’ adventure stories of the day. It’s also like Howard Pyle, the famous illustrator who did pirate stories. That’s the stuff we were taken with as kids”
Ethan Coen, 2010
“Tonally, it’s different than what we’ve done before”
Joel Coen, 2010
Il ricordo del Grinta, il romanzo western del giornalista Charles Portis, era indissolubilmente legato al film del 1969, con un imbolsito e stanco John Wayne, icona al tramonto di una Hollywood che non c’era più e di un genere che trovava la sua ragion d’essere solo nella decostruzione dell’immaginario western, così precisamente edificato da John Ford, Howard Hawks e dai registi dello studio system.
I film di Sam Peckinpah, Sergio Leone, Arthur Penn e Robert Altman smontavano la leggenda, l’affogavano nella violenza più brutale o ribaltavano il punto di vista della frontiera, seguendo lo spirito degli anni ’60 ed il rinnovamento stilistico imposto dai ‘movie brats’, che usavano la narrazione di genere solo come struttura, per potersi esprimere nella maniera più personale ed anticonvenzionale: la rivoluzione culturale dei Cahiers du Cinema, che guardavano alla Hollywood classica con occhi del tutto nuovi, aveva attraversato l’oceano con effetti imprevedibili.
Per quasi un ventennio il western è però rimasto sottotraccia, quasi dimenticato, almeno sino al fluviale Balla coi Lupi, capace di recuperare lo spirito degli innovatori, ed al definitivo e disperato Eastwood de Gli Spietati.
Eppure gli stessi Coen, adattando il romanzo di Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi, avevano fatto un primissimo passo per riportarci nel cuore assolato dei grandi paesaggi della frontiera, sul confine col Messico e ad un’altra storia di uomini, armi e denaro, solo un po’ più vicina a noi.
Qui, invece accettano la sfida di ritornare allo spirito originale del romanzo di Portis, con un racconto di formazione, che pesca tanto nella tradizione western, quanto nella grande avventura e nello studio di caratteri.
Il risultato è straordinario.
Pur lontano dal tono cupo e privo di speranza dei loro ultimi film, i fratelli del Minnesota riescono a costruire un’opera apparentemente lineare, senza tradire mai la loro idea di cinema e senza rinunciare al loro spirito caustico e non riconciliato.
Il destino continua a prendersi gioco dei loro personaggi, che lottano senza tregua per dare un senso ai loro gesti ed alle loro azioni.
Anche questa volta i Coen si affidano al racconto in prima persona di uno dei protagonisti: è Mattie Ross che ricorda i suoi quattordici anni, funestati dall’assassinio del padre Frank ad opera del criminale Tom Chaney.
Spetterà a lei occuparsi dell’eredità del padre e della inevitabile vendetta. Raggiunto in treno l’Oklahoma, Mattie scopre che Chaney si è rifugiato in territorio indiano, assieme ad un altro criminale di mezza tacca.
La ragazzina è tutt’altro che sprovveduta e dopo aver contrattato strenuamente, per ottenere il massimo dalla vendita dei cavalli lasciati del padre, contatta lo sceriffo, che non ha alcuna intenzione di seguire l’assassino nella Nazione Indiana.
Mattie deve rivolgersi quindi ad uno sceriffo federale, Reuben ‘Rooster’ Cogburn, che conosce il territorio dei Choktow ed è un esperto bounty hunter.
Sulle tracce di Cheney però c’è anche un ranger, La Beouf, che vuole riportare in Texas il fuggitivo, colpevole anche dell’omicidio di un senatore.
Il gruppo si forma faticosamente, perchè Cogburn è riluttante e dedito più alla bottiglia che al proprio lavoro, La Beouf è irriso continuamente dallo sceriffo e la piccola Mattie sembra essere un peso per entrambi.
Il viaggio sarà ricco di incontri surreali e di insidie, fino all’inevitabile confronto finale.
In una struttura narrativa classica i Coen non rinunciano alla loro ironia sottile e corrosiva ed ai loro personaggi bizzarri e fuori dagli schemi.
La caratterizazione dei tre protagonisti è meravigliosamente indovinata, con un continuo scontro di personalità, che si delinea sin dal lungo prologo, nel quale facciamo la conoscenza dei personaggi.
I Coen sembrano prendersela comoda, ma la prima mezz’ora è proprio la parte del film più divertente e necessaria, perchè l’avventura nel territorio indiano si riveli in tutta la sua profondità: non tanto e non solo un percorso di violenza e vendetta, che i Coen biblicamente non mettono mai in discussione, ma anche un grande viaggio all’interno di sè, capace di esaltare il coraggio e la forza di ciascuno.
Per Mattie Ross rappresenterà inevitabilmente l’entrata nel mondo degli adulti, attraverso la violenza, il sacrificio e la morte.
C’è una sinistra consonanza tra questo bellissimo True Grit ed un altro dei grandi film del 2010, il Dragon Trainer della Dreamworks: anche quella era una splendida avventura di formazione, che nasceva dal desiderio di vendetta, e finiva per condurre ad una nuova maturità.
Diventare adulti, comprendere il proprio ruolo nel mondo, porta inevitabilmente a perdere qualcosa di sè, metaforicamente ed, in entrambi i film, anche fisicamente: ogni processo di cambiamento comporta un sacrificio ed i Coen non perdono occasione per ricordarcelo, sin dal bellissimo prologo, nel quale un’adulta Mattie ricorda i fatti, che seguirono alla morte del padre. Le sue ultime parole suonano già come un avvertimento: “Non c’è nulla di gratuito nel mondo, tranne la grazia di Dio“.
Questo bellissimo ed elegiaco True grit sembra quasi formare con A serious man e Non è un paese per vecchi un’ideale trilogia sul vecchio testamento, sulla durezza ed incomprensibilità del Dio di Abramo, non ancora addolcito dal sacrificio evangelico.
I personaggi sembrano alla ricerca di un senso che giustifichi le loro azioni ed i loro turbamenti, ma la volontà di Dio rimane inattingibile. Le vie del Signore sono sempre imperscrutabili ed anche quando giustizia è fatta, secondo la rude massima dell’occhio per occhio, il destino sembra prendersi gioco dei personaggi.
Il film dei fratelli Coen è straordinariamente fotografato da Roger Deakins, capace di cogliere la bellezza di un paesaggio sconfinato e pieno di avversità: si passa dal sole del deserto alla neve, dalla luce accecante del giorno a quella tremante del fuoco negli accampamenti di fortuna, sino al blu della splendida cavalcata notturna, che sembra concludere il film.
Jeff Bridges si dimostra ancora una volta splendido caratterista, capace di infondere al ruvido Cogburn l’umanità perduta dei grandi uomini del west. Coraggioso, spavaldo, spesso ubriaco, ma capace di riconoscere la testardaggine di Mattie e le sue buone ragioni, è un personaggio a tutto tondo, bigger than life, intimamente legato ai successivi Dude Lebowski e Bad Blake, losers dal cuore grande.
Non c’è nulla della straighforwardness di Wayne nel suo personaggio, fin dalla benda che passa dall’occhio sinistro a quello destro. Il suo Rooster Cogburn si avvicina molto di più al personaggio creato da Portis ed agli uomini di legge del tempo, che passavano la loro vita nei saloon o a dorso di cavalli stanchi.
Matt Damon dipinge un altro ritratto curioso e surreale, il suo Texas ranger La Beouf è una spalla formidabile per gli altri due protagonisti, spesso coalizzati contro di lui.
Damon negli anni ha saputo alternare i suoi ruoli d’azione e da protagonista eroico, con altri più defilati, singolari, fuori dagli schemi, costruendo una carriera che oggi appare assolutamente pregevole e anticonformista.
Infine la debuttante Hailee Steinfeld: la sua Mattie è una forza della natura, determinata, capace di utilizzare la propria inesperienza e la propria età, sempre a suo favore. Testarda e decisa a vendicare la morte del padre, non si ferma davanti a nulla. Vestita con la lunga giacca ed il cappello troppo largo di Frank Ross, non ha paura di dormire nell’obitorio o di attraversare un fiume sul dorso del suo pony nero, pur di partecipare alla grande avventura che segnerà la sua vita indelebilmente.
Soprattutto nella prima parte il film appartiene a lei, interamente. Poi i due uomini di legge sembrano avere più spazio, ma nel finale sarà ancora Mattie a trascinare il film verso il più inaspettato dei finali, che unisce lo spirito leggendario di Ford con quello dissacrante di Altman.
Come ha scritto Roger Ebert: I’m surprised the Coens made this film, so unlike their other work, except in quality. Instead of saying that now I hope they get back to making “Coen Brothers films,” I’m inclined to speculate on what other genres they might approach in this spirit.
The Coens having demonstrated their mastery of many notes, including many not heard before, now show they can play in tune.1
True Grit è già diventato, al momento in cui scriviamo, il film più visto dei fratelli Coen: un inaspettato trionfo natalizio, quasi a voler consacrare, una volta per tutte, il cinema senza confini di due straordinari autori americani.
1 Roger Ebert, True Grit, Chicago Sun-Times, 21.12.2010
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