Post Mortem ***1/2
Ad un festival del cinema, il cartellone spesso regala sorprese ad ogni passo ed accosta film apparentemente lontani, che hanno budget e origini diverse, idee e obiettivi distanti.
Alcuni sono spesso inutili e reazionari, altri hanno invece un respiro profondo, che entra sotto pelle: capolavori necessari e politici.
Post mortem è uno di questi.
Nel nuovo film di Pablo Larrain – premiatissimo con il precedente Tony Manero, a Cannes e Torino – siamo ancora nel Cile degli anni ’70, solo qualche anno prima .
Il protagonista è Mario, un funzionario che lavora all’obitorio di un ospedale della capitale. Lunghi capelli, distinto ed elegante, è un uomo senza qualità, un invisibile che cerca un senso alla propria vita nell’amore per una vicina di casa, Nancy, ballerina in un locale di cabaret.
Il padre ed il fratello di lei sono impegnati politicamente, ma a Mario non interessa la dimensione pubblica: fa il suo lavoro metodicamente, vive da solo e cerca di attirare disperatamente l’attenzione della ragazza, che abita di fronte.
La loro vita sarà sconvolta completamente dal colpo di stato militare, contro il presidente Salvador Allende.
Raccontare meglio la trama sarebbe un peccato, in un film che vive di svolte narrative improvvise, sconvolgenti, che caricano ogni gesto di significati ulteriori.
Alfredo Castro, già straordinario Tony Manero, interpreta il piccolo funzionario, travolto dagli eventi, con un’economia espressiva, che lascia sconvolti: ma la Storia gli passa accanto e lo contagia irreparabilmente.
La violenza feroce, brutale, inumana finisce per travolgerlo e per sollecitare anche in lui sentimenti primordiali.
La sua la sua opacità, la sua apparente passività, la sua timidezza si rivolteranno come un guanto, in un finale agghiacciante, nel quale tradimenti pubblici e privati si sovrappongono drammaticamente.
Larrain non sembra però interessato ad una ricostruzione semplicemente politica, ma mostra il clima di intimidazione e violenza, che si annida in ogni struttura sociale e che travolge anche i più miti.
Con un’intuizione felicissima, il regista trasforma l’obitorio dell’ospedale in cui lavora Mario, in una metafora dell’intero paese: il corpo sociale è dissezionato, dilaniato, privato dell’anima e ricomposto solo apparentemente, per fare mostra di sè, nella fissità abissale della morte.
Il racconto di Larrain amplifica e si pone in rapporto strettissimo con il suo film precedente. Il seme di quella ferocia -che rendeva cupa e angosciante la vita del protagonista di Tony Manero – viene gettato proprio qui: nel trauma dell’assassinio presidenziale, c’è forse la chiave per interpretare gli anni di Pinochet, con i cadaveri che si accumulano nell’ospedale, il rigido protocollo medico-legale stravolto dall’eccezionalità degli eventi e l’ordine mantenuto solo con la brutalità delle armi.
La forza poetica del cinema di Larrain è senza tregua: memorabili tutte le scene in ospedale, quelle della routine noiosa e burocratica e quelle dell’emergenza dei corpi accatastati senza sosta.
Non perdetelo: la sua forza evocativa, il suo realismo tragico, la sua logica spietata vi accompagneranno fuori dalla mediocrità dei tanti prodotti, che affollano inutilmente le nostre sale.
Pablo Larrain continua a scavare nella storia del proprio paese, confrontandosi con una delle pagine più sconvolgenti dell’ultimo secolo, riflessa negli occhi tristi di un funzionario dell’ospedale di Santiago.
La violenza inaudita che attanaglia il Cile del 1973 finisce per propagarsi senza distinzioni: il germe della corruzione politica e militare si diffonde rapidamente nella coscienza morale. Nessuno è più innocente di fronte all’orrore.
Ed anche il cinema finisce sepolto, assieme alla memoria di un intero paese, sotto un cumulo infinito di oggetti, che ora non significano più nulla.
Imperdibile.
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