Hunger Games – La ragazza di fuoco

La ragazza di fuoco

Hunger Games – La ragazza di fuoco *1/2

Per dovere di critica (…e di botteghino), recensiamo questo secondo episodio della saga di Hunger Games. Ma ne avremmo volentieri fatto a meno.

Perchè quando un film è fondamentalmente inutile, a che cosa può servire una recensione?

Tutto quello che Hunger Games aveva da mostrare, non solo in termini cinematografici, ma anche sociologici e politici, si è esaurito nel primo episodio: sappiamo già tutto della bravura di Jennifer Lawrence e della sua costumista, del romanzo di formazione che porta la giovane adolescente a confrontarsi con la crudeltà di un mondo fatto di soprusi e tirannia, del regno di Panem retto dallo sfruttamento e dal terrore, dei giochi come valvola di sfogo e di riscatto sociale, del ruolo della televisione nell’indottrinamento delle masse, con i reality show invadenti e vuoti, scritti minuziosamente da mani esperte, della rivolta contro le regole opprimenti in nome dell’amore, vero o fasullo che sia.

Questo secondo La ragazza di fuoco ritorna pedissequamente sugli stessi temi senza aggiungere nulla.

Katniss e Peeta, i due vincitori dei 74° Hunger Games, amanti sullo schermo – ma non nella realtà – si godono il loro tour della vittoria nei 12 distretti in cui è suddiviso il mondo di Panem. 

Ma ovunque arrivino si scatena la rivolta. Per frenare la deriva e sbarazzarsi della loro presenza ingombrante il presidente Shaw decide che l’edizione dei 75 anni degli Hunger Games si svolgerà mettendo uno contro l’altro i vincitori storici delle passate edizioni, senza nuovi tributi.

Nel frattempo Katniss è divisa tra l’affetto non ricambiato del debole Peeta e la passione per il minatore Gale.

Il film dopo un inizio verbosissimo e piuttosto noioso, entra nel vivo ripetendo pedissequamente il rituale del primo episodio: gli allenamenti dei partecipanti ai giochi, le comparsate tv e quindi finalmente la battaglia senza esclusione di colpi, in un campo di gara interamente nuovo.

Battaglia opportunamente anestetizzata, dove si muore sempre fuori campo e senza spargimento di sangue, in modo da evitare la rigida censura americana.

In una logica diversa, le due ore e mezza di questo sequel avrebbero potuto ridursi a meno della metà, senza particolari problemi.

Ma il modello della peggiore serialità televisiva ha contagiato pericolosamente anche Hollywood: ed allora quello che conta è riempire le sale più volte possibile con la stessa esile trama, ripetuta ad libitum.

Il meccanismo è mutuato, anche in tv, da quello delle soap, dove non succede nulla, ma conta l’aggancio emotivo, la curiosità di sapere come va a finire, la simpatia dei protagonisti: i fans accorreranno, inebetiti e contenti di rivedere i loro beniamini ancora ed ancora una volta.

Il primo a sfruttare cinicamente questo meccanismo fu Lucas con i sequel infiniti di Star Wars, che ancora ci tormentano: si ispirava ai serial avventurosi degli anni ’50, ai matinée di quando era bambino, alla ripetitività del fumetto. 

Il suo era un recupero cinefilo e nostalgico di una tradizione bassa.

Qui siamo invece all’applicazione di una formula furba e sempre uguale a se stessa: dal Signore degli Anelli a Harry Potter, passando per Twilight sino a questo ultimo Hunger Games.

Tutto il resto, a mio parere, finisce sullo sfondo: le diatribe sul progressismo o conservatorismo della visione di Panem, il cambio in cabina di regia e nel gruppo degli sceneggiatori, il ruolo di un attore come Philip Seymour Hoffman all’interno della serie, i debiti verso la fantascienza orwelliana più nobile di Battle Royale e Truman Show.

Quello che conta davvero, e che traspare ormai in maniera evidente, è che il pubblico accorra e parteggi per la sua eroina, il più a lungo possibile: ed il fatto che l’ultimo capitolo della trilogia sia stato già diviso in due film ne è solo l’ultima riprova.

Lasciate perdere…

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