Dopo l’esordio con il duro e politico Prossima fermata Fruitvale Station che nel 2013 gli vale la vittoria del Sundance e il debutto a Un certain regard a Cannes, ricostruendo il brutale assassinio di Oscar Grant da parte della polizia di Oakland, Ryan Coogler ha passato il successivo decennio all’ombra delle major, adattando e rinnovando franchise di successo: gli si devono il primo Creed e i due film Marvel dedicati a Black Panther.
I Peccatori, prodotto assieme alla Warner, sembra rappresentare il suo prepotente ritorno a qualcosa di più personale e originale, pur mantenendo per un verso una profonda dimensione politica e ideologica e per l’altro solide radici di genere, che ne fanno un grande spettacolo, raffinato e popolare al contempo.
Il film comincia ricordandoci il potere taumaturgico della musica tradizionale, la sua capacità di attraversare il tempo, lo spazio e le culture, ma anche di evocare nel contempo spiriti malvagi.
E’ la mattina del 16 ottobre 1932 e il giovane Sammie raggiunge in auto la chiesa dove il padre predicatore sta tenendo la sua funzione domenicale: è ferito, sporco di sangue e del suo “dobro” non rimane che il manico, impugnato come fosse un’arma.
Tutto il film si svolge nelle ventiquattro ore precedenti.
I protagonisti di questa storia sono due fratelli gemelli Smoke e Stack, che dopo aver combattuto nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, hanno lavorato a Chicago per Al Capone e ora ritornano nella natia Clarksdale, Mississippi con una borsa piena di soldi sporchi e il sogno di aprire un Juke Joint per soli afroamericani, dove ballare e bere birra irlandese, dimenticando le lunghe giornate passate a raccogliere cotone.
Siamo nel profondo sud segregazionista della leggi di Jim Crow e comprato da un bianco razzista del Klan un vecchio mulino abbandonato per riadattarlo al loro scopo, Smock e Stack riallacciano i rapporti con quelli che avevano abbandonato molti anni prima.
Innanzitutto il giovane cugino Sammie, detto Preacher Boy, che ha scelto la musica del diavolo ai sermoni paterni, quindi le donne: Mary, la mezzosangue che ha appena perduto la madre e che ha inutilmente sperato di sposare Stack molti anni prima e Annie, la moglie di Smoke, una guaritrice che amministrata riti hoodoo e magia bianca, ma che non è riuscita a salvare la loro piccola figlia dalla malattia.
Smoke e Sammie arruolano poi il bluesman Delta Slim, la coppia sino-americana Grace e Bo, che gestiscono i due empori cittadini, rigidamente divisi per bianchi e neri, e che si occupano dell’insegna del locale, il corpulento Cornbread come buttafuori e la giovane Pearline come cantante.
Tutto è pronto per una serata memorabile, ma sul calare del sole forze diverse si coalizzano e si dirigono verso il Juke Joint: altre origini, altra musica, altro destino li attende.
Coogler si prende tutto il tempo per costruire un racconto corale, in cui ogni strumento abbia il suo assolo e la sua importanza, con un movimento progressivo e concentrico che poi converge nella lunga notte del Juke Joint, in cui tutti le storie troveranno il loro epilogo.
Il film vive della simbiosi tra la scrittura drammatica di Coogler e la musica di Ludwig Göransson, capace di interpretare politicamente le linee di frattura del film, contrapponendo il delta blues degli afroamericani al folk irlandese e alla musica tradizionale bianca, in uno scontro che è innanzitutto culturale e che trascende ogni razionalità, arrivando a rompere i legami della fisica, in un’orgia estatica in cui il tempo e lo spazio si piegano in modo sbalorditivo riunendo il blues delle radici, al rock elettrico, al funk, all’hip-hop di ieri e di oggi.
Il personaggio di Sammie sembra prendere spunto dalla leggenda di Robert Johnson così come da quella di Charley Patton, citato esplicitamente nel film, il padre del Delta Blues.
Non tragga in inganno la campagna di marketing con cui I Peccatori è stato venduto: il film di Ryan Coogler non è – solo – un film di vampiri. Non è un B-movie pieno di sangue e gore come Dal tramonto all’alba, il riferimento cinematograficamente più immediato. E’ più vicino al cinema di John Carpenter e alla sua idea di genere, proseguendo in modo coerente la traccia autoriale già evidente in Black Panther e Fruitvale Station, per quanto complesso possa essere comprenderne sino in fondo la natura politica e culturale da una prospettiva europea.
Il regista mette in discussione le pulsioni contraddittorie della segregazione americana: la disumanizzazione di chiunque sia ritenuto indesiderabile, unita all’invidia per la sua cultura, in modo non dissimile da quanto raccontato da Jordan Peele in Scappa – Get Out!.
Il personaggio di Delta Slim lo dice senza mezzi termini: “Ai bianchi piace il blues, semplicemente non gli piacciono le persone che lo creano“.
In questo contesto, gli stessi vampiri che promettono una vita eterna lontano dalle ingiustizie e dalle sofferenze della segregazione evocano il rapporto parassitario di lunga data tra la musica creata da artisti neri e gli opportunisti bianchi che colgono l’occasione per separare il suono dalle sue origini, riprendendo il discorso di August Wilson nel suo Ma Rainey’s Black Bottom.
Essere costretti a lavorare all’interno di questo sistema sembra davvero rappresentare una sorta di patto col diavolo, nel quale l’industria si nutre del sangue dei suoi artisti e sebbene I Peccatori non sia così semplice da fornire una sola chiave interpretativa alla grande metafora dei vampiri, è significativo che Coogler sembri evocare chiaramente anche questa.
La scena i cui i vampiri costringono le loro prede a cantare “Wild Mountain Thyme” e a ballare una giga irlandese è impressionante.
Il film resta tuttavia allo stesso tempo uno spettacolo popolare, carnale, pieno di sensualità, accaldato ed eccitato come la musica che si suona nel locale di Smoke e Stack, rispettando pienamente le sue radici di genere, soprattutto nell’ultimo atto che si apre con l’arrivo di un terzetto di melliflui vampiri bianchi al Juke Joint e si conclude circolarmente con l’alba in cui Sammie ritorna nella Casa del Padre.
Un ritorno però che prelude a una nuova fuga.
Coogler, memore dei suoi tempi alla Marvel, immagina una lunga coda sui titoli finali, ambientata sessant’anni dopo gli eventi raccontati nel film, che è un colpo al cuore di ogni appassionato di blues e che naturalmente non riveleremo, consigliandovi tuttavia di restare sino alla fine.
La scrittura scricchiola soprattutto nella parte centrale e il film sembra cedere sotto il peso delle troppe ambizioni di Coogler e del suo tentativo di tenere assieme alto e basso, spettacolo colto e intrattenimento popolare. Certe volte il film è troppo didascalico, altre si lascia andare ad un eccesso di irruenza.
Mi paiono tuttavia difetti minori.
La fotografia di Autumn Durald Arkapaw in IMAX e Panavision 70mm è sensazionale, soprattutto nelle scene che preludono al tramonto e anticipano l’alba, ma anche negli interni accaldati del Joint.
Il montaggio di Michael P. Shawver, con Coogler sin dal primo film, ne asseconda il diverso ritmo interiore, dilatando quando serve e accelerando quando è necessario, secondo un andamento musicale che si fonde con lo score sonoro.
Michael B.Jordan di solito assai poco convincente, si trova qui sdoppiato nel ruolo dei sue gemelli e funziona egregiamente: il suo è il più classico dei ruoli eroici in cui l’azione prevale su ogni cosa e la fisicità esplosiva è perfettamente adatta ai due caratteri non così diversi tra loro.
A emergere sono tuttavia soprattutto l’esordiente Miles Caton nel ruolo di Sammie, autentico musicista che impreziosisce di verità la sua interpretazione e la nigeriana Wunmi Mosaku (His House), come sempre magnetica e misteriosa nel ruolo della moglie Annie.
Delroy Lindo si ritaglia il ruolo del caratterista a cui la sceneggiatura serve le uniche vere battute del copione e infatti brilla come nei film di Mamet e Lee interpretati un tempo. Il resto del cast è perfettamente indovinato e funzionale, anche perché il copione riserva a ciascuno il suo spazio senza sacrificare nessuno.
Il messaggio politico sembra decisamente anacronistico nell’America del trionfo bianco e trumpiano, un segno di resistenza culturale che suona al contempo liberatorio e radicale, come nel sottofinale in cui Stack affronta il Klan con la più classica delle machine gun di quegli anni.
Funzionerà? La Warner lo spera…
Dal 17 aprile in sala.


Mi affascinava molto questo film e onestamente spero abbia successo. Vorrei vedere sempre più spesso opere che tentano un approccio diverso (anche se in un certo qual modo mi ricorda in parte il bellissimo Vampires di Carpenter).