Al suo quarto lungometraggio, Alice Rohrwacher resta uno dei talenti incompiuti del cinema italiano contemporaneo, capace di fare un cinema unico, originalissimo, che fonde realismo e favola, una costruttrice di microcosmi narrativi, spesso riportati alla luce da un passato italiano perduto e marginale, da un posto delle fragole dove i ricordi si trasformano in fantasmi di nuove avventure. Troppo di frequente tuttavia i suoi lavori non riescono a mantenere ciò che promettono: troppo innamorata dei suoi personaggi e meno delle loro storie, la regista sembra quasi abbandonarli al loro destino. Accadeva a Lazzaro, come a Gelsomina, lo stesso avviene per Arthur, il rabdomante inglese protagonista di questo nuovo film.
La chimera torna a Cannes dopo il debutto alla Quinzaine di Corpo Celeste e i premi raccolti in concorso da Le meraviglie e Lazzaro Felice.
Conosciamo Arthur un giovane inglese studente di archeologia, su un treno che lo riporta a casa, dopo aver passato un periodo in carcere. Un abito liso di lino bianco, la sigaretta sempre all’angolo della bocca, uno spleen esistenziale come unica risposta alla vita. E’ il classico inglese espatriato nella nostra campagna toscana. Ad accoglierlo alla stazione uno dei suoi amici italiani, a capo di un banda di tombaroli che sopravvive depredando i tesori etruschi grazie all’intuito sovrannaturale di Arthur per individuare i sepolcri nel sottosuolo.
Nella sua vita passata l’inglese aveva conosciuto la nobile decaduta Flora, innamorandosi della figlia Beniamina.

Ma Beniamina ora non c’è più, è solo un ricordo negli occhi di Arthur, costretto a esercitare la sua arte in favore del misterioso mediatore Spartaco, una voce in una clinica veterinaria, che esamina i reperti, li compra ad una frazione del loro valore e poi con certificati contraffatti li vende a ricchi milionari a prezzi astronomici.
Nel frattempo con Flora vive Italia, una studentessa di canto che in realtà presta servizio all’anziana musicista e nasconde a casa sua le due figlie piccole. Tra lei e Arthur sembra nascere un sentimento nuovo. Ma è solo un’illusione: il mondo del protagonista è quello dei morti, delle anime perdute.
Rohwacher si affida ancora una volta alla fotografia di Hélene Louvart con i suoi formati diversi, pellicola 16mm e 35mm, formato stretto stondato ai bordi, e la capacità di evocare nella sua grana crepitante, nei suoi neri profondi e nei suoi colori slavati, un tempo cinematograficamente magico e fuori dalla storia.
Siamo nella Tuscia degli anni ’80, ma una definizione precisa è priva di senso, in una storia che parla di un passato indefinito, quello in cui si muovono i fantasmi di questa storia.
Solo che, dopo aver introdotto Arthur e la sua banda scanzonata, Flora, Italia e le sue figlie, dopo aver scoperto il modus operandi del misterioso Spartaco, il film non sa bene dove andare, accontentandosi di girare in cerchio, preparando l’inevitabile finale di riconciliazione.
Il mondo dei tombaroli è descritto con un’umanità e un’ironia che sono ormai la cifra distintiva del lavoro della Rohrwacher, che qui ci mostra anche quello che tutti sanno e spesso il mondo dell’arte sceglie di dimenticare, ovvero che non esiste reperto dell’antichità che non sia stata rubato e contrabbandato.
Solo che il protagonista prima studente di archeologia e poi ladro di reperti è un’anima divisa in due, costantemente a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, dove l’attende l’amata Beniamina.
Lui stesso insegue una chimera, attraversando il film in uno stato catatonico che non sappiamo se sia una scelta della Rohrwacher o una scelta del modestissimo Josh O’Connor, davvero impalpabile nella sua malinconia continuamente esibita.
La regista non si fida sino in fondo di lui e allora sovraccarica il suo film con una serie di elementi sia paratestuali sia interni al racconto, che contribuiscono a piombarne l’andamento: cosa dire infatti della carta dei tarocchi – l’appeso – scelta come locandina? o dei cantastorie che in un paio di occasioni nella seconda parte del film riassumono il racconto in musica e parole? o dell’inevitabile Battiato nel finale?
E come inquadrare quel gineceo guidato da Italia che ha preso possesso della stazione abbandonata, facendone uno spazio nuovo e utopico? E’ una dichiarazione d’intenti politica? Eppure l’inquieto protagonista, alla richiesta di restare, risponde con una fuga all’alba, senza neppure salutare.
Altrettanto ambigua la scelta di ritrarre con una certa condiscendenza i tombaroli buoni, quelli simpatici e scanzonati che accolgono (e sfruttano) Arthur, contrapponendoli a quelli cattivi del finale. In realtà entrambi lavorano per gli stessi ricettatori, depredando la nostra storia e noi tutti, a beneficio di pochi facoltosi acquirenti.
Il film è vitale e malinconico nella prima parte, pur essendo immerso in un mondo di morte, superstizione e sepolcri, confuso e velleitario nella seconda parte, quando il racconto si sfilaccia in una trama di genere e poi si perde nella mente del suo protagonista.
Rohrwacher resta così la regista di talento di film sempre più imperfetti, tanto desiderosa di riportare alla luce i reperti di un certo cinema italiano perduto – quello del primo Olmi, del Pasolini degli anni ’60 e dei suoi tardi epigoni – da sembrare lei stessa una tombarola un po’ anarchica.
Ma il problema, come ha scritto Alessandro Uccelli su Cineforum, è che “senza la rigidità dell’archeologia e della filologia c’è il rischio, per non dire la certezza, di finire a far la parte dei rigattieri“.

