La zona d’interesse

La zona d’interesse ****

Il fascismo inizia in famiglia

Il titolo bianco su sfondo nero svanisce lentamente lasciandoci al buio, ad ascoltare la musica dissonante e aspra di Mica Levi, mentre lo schermo insolitamente rimane nero.

Ci appaiono infine i protagonisti di questa storia, una bella famigliola tedesca, che fa il bagno sulle rive di un fiume. Quindi il rientro a casa con il cane, le governanti, il giardino curatissimo, la piccola piscina, la serra. Il muro del giardino è coperto da filo spinato, condiviso con il campo di sterminio di Auschwitz.

La famiglia è quella di Rudolf Höss, il placido comandante del campo, e di sua moglie Hedwig.

Non oltrepasseremo mai quel muro. Eppure l’incombere della macchina atroce dello sterminio è opprimente: un sottofondo continuo di voci, urla straziate, colpi di pistola, il rumore sordo delle camere di cremazione, il fumo e le fiamme che inondano le notti.

Eppure nessuno tra gli Höss sembra farci caso. La mattina arrivano le pellicce requisite alle donne internate, i vestiti, le camicette, mentre i bambini giocano con i denti d’oro. Un prigioniero è addetto alla pulizia degli stivali del comandante.

I personaggi parlano, chiacchierano, discutono il trasferimento di Höss al quartier generale, mentre la moglie non vuole abbandonare la sua comoda villetta in Polonia. Il comandate viene informato della possibilità di costruire un forno circolare che possa lavorare ciclicamente tutto il giorno e senza soste alla “soluzione finale”.

Le parole però in questo film non contano. Non c’è quasi nulla che vada ricordato tra quelle che si scambiano i personaggi. Le uniche voci che si insinuano come una lama nel cervello sono quelle che arrivano straziate dall’altra parte del muro.

La madre di Hedwig, in visita qualche giorno, è l’unica che sembra accorgersi dell’orrore. E una notte, in silenzio, fa le valigie e scappa senza salutare nessuno. Gli Höss vivono alle porte dell’inferno, del tutto anestetizzati dal dolore altrui, preoccupati solo dei loro piccoli affanni familiari.

Il film di Glazer, ispirato al romanzo omonimo di Martin Amis, è il racconto disumano dell’indifferenza di fronte all’indicibile.

Immerso nella luce cristallina, quasi astratta della fotografia del giovane talento polacco Łukasz Żal (Ida, Cold War), La zona d’interesse annulla qualsiasi distanza storica, nega qualsiasi ricostruzione d’ambiente, per mostrarci l’eternità del Male nella sua dimensione quotidiana, ordinaria, miserabile.

E quando improvvisamente un conato di vomito sembra umanizzare il comandante Höss, un memorabile stacco narrativo ci porta per un attimo dentro il campo deserto, oggi, mentre le addette alla pulizia sistemano le camere e le stanze per l’arrivo dei visitatori.

E’ solo un momento, una dissonanza visiva, in un film costruito invece con un rigore cartesiano sulla contrapposizione tra un sonoro dantesco, disturbante, straziato e immagini linde, pristine, inutilmente glaciali.

Immagini riprese da un sistema di macchine da presa fisse, installate dal direttore della fotografia nella residenza degli Hoss, ricostruita dallo scenografo Chris Oddy. Il risultato è straniante e intimo al tempo stesso, immagini rubate, casuali, ancor più esplicite nella loro quotidianità.

Come ogni film morale, il lavoro di Glazer ragiona sui limiti della rappresentazione, mette tra parentesi il visibile, rimane ellittico, per cercare di restituire l’orrore senza profanarlo e senza farne pornografia del dolore: nessuna commozione è ancora possibile, nessuna lacrima, nessuna pietà, ma solo un’inquietudine profonda, che penetra a poco a poco nelle ossa e nella mente e non se va più.

Il lavoro sul sonoro di Johnnie Burn è semplicemente sensazionale, prendendosi costantemente la scena e riempiendo di senso e profondità immagini che ne sono volutamente prive. Mai Premio Oscar è stato assegnato in modo più pertinente.

La zona d’interesse rifiuta qualsiasi scorciatoia narrativa tradizionale, qualsiasi intento didattico, lasciando al suo pubblico il compito più difficile, quello di riempire il vuoto che il film costruisce, scavalcare non solo simbolicamente quel muro che invece la macchina da presa non varcherà mai.

Ad un certo punto Glazer usa una macchina da presa a infrarossi, come Vasyanovich in Atlantis, per inquadrare l’unico essere umano del film, una ragazzina che come pollicino lascia una traccia di mele nel terreno perchè i prigionieri possano trovarle e sfamarsi: si tratta di Alexandria, una testimone della resistenza polacca che Glazer ha incontrato durante la preparazione del suo film e a cui La zona d’interesse è dedicato.

Significativamente la rottura della rigorosa messa in scena scelta dal regista avviene proprio per sottolineare l’unico gesto empatico di un film glaciale e indifferente.

Così come altra cesura avviene con il salto temporale che ci porta alla Auschwitz di oggi, a voler esorcizzare ogni dimensione museale della memoria di quel tempo atroce della nostra storia europea. Glazer stesso ha chiarito: “Non ero interessato a fare un pezzo da museo. Ero determinato a non fare un film sul passato ma sull’oggi perché questo non è un documento. Non è una lezione di storia. È un avvertimento”.

Come ha scritto Alessandro Ronchi, al tema arendtiano della banalità burocratica del male, il film ne associa un altro ancor più politico, che è legato alla cultura all’interno della quale emerge l’efficienza implacabile del protagonista: “A Rudolf Hoss – che vediamo nel film trattare con ingegneri e chimici come fossero rappresentanti commerciali qualsiasi – si deve l’applicazione del fordismo al genocidio, l’introduzione del gas Zyklon B per massificare, ottimizzare e velocizzare le uccisioni. Rudolf Hoss è anche un padre amorevole, un marito infedele ma attento e un uomo noioso oltre che incidentalmente un criminale contro l’umanità: un personaggio che ha qualche tangenza col protagonista de L’avversario di Emmanuel Carrère. Rudolf Hoss è anche e soprattutto l’apicale di plurime «creature non pensanti, borghesi, carrieriste» che prosperano attorno allo sterminio di ebrei, rom, omosessuali. Il film di Glazer esplicita la discendenza diretta dell’Olocausto dall’ideologia e dalla forma di vita capitalista e da quella borghese. Non c’è meno violenza nella moglie Hedwig che “fa shopping” con i beni sottratti ai deportati e (finge di) non vede(re) al di là del proprio giardino. E neppure nella suocera orgogliosa per la buona posizione raggiunta dal genero e dalla figlia mentre è accompagnata in un allucinante giro della proprietà che gela il sangue quanto i forni crematori perché espone l’orrore che può annidarsi nella normale ferocia delle pulsioni e della tensione al nucleo e all’autorealizzazione, nelle estreme conseguenze del familismo amorale dei borghesi”. [1]

Sono passati dieci anni dall’ultimo film di Glazer, Under the Skin, passato a Venezia tra accoglienze molto contrastanti. Eppure il tempo non è trascorso invano, se il risultato è questo formidabile ritratto personale e collettivo.

La zona d’interesse è un film pensato. La riflessione sulla messa in scena, sull’adattamento, sulla dimensione sonora e le interpretazioni è indubbiamente unica e personalissima. Per certi versi può ricordare Il figlio di Saul, nella sua scelta radicale di negarci l’orrore facendocelo intuire solo attraverso le voci e i rumori. Ma la tempesta emotiva del film di Nemes qui è del tutto assente.

Sandra Hüller e Christian Friedel sono i coniugi Höss, ma conta poco. Non sono loro i protagonisti di questa storia. Forse siamo noi i protagonisti, perchè il film ci riguarda, ci chiama in causa, interroga la nostra umanità e la nostra indifferenza.

Imperdibile.

Premio Oscar per il miglior film internazionale, Grand Prix a Cannes e BAFTA al miglior film inglese.

[1] Alssandro Ronchi, La zona d’interesse, https://www.spietati.it/la-zona-dinteresse/

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