Los Angeles 1926. In un caldo pomeriggio estivo, Manny Torres, un tuttofare di origini messicane, cerca faticosamente di trasportare un elefante sulla collina brulla di Bel Air, verso la villa di Don Wallach, uno dei magnati dei Kinoscope Studios: il gigantesco mammifero è l’attrazione a sorpresa della festa selvaggia e dionisiaca che il produttore terrà quella sera, a cui parteciperà tutta la Hollywood che conta.
Fiumi di alcool e droga, sesso selvaggio, il ritmo pulsante e ossessivo di un’orchestra jazz sembrano poter durare per sempre, in una notte che si chiude solo alle prime luci dell’alba.
Durante la lunga nottata facciamo la conoscenza degli altri protagonisti di questa storia.
Nellie LaRoy, innanzitutto, una sconosciuta di grandi ambizioni che viene dal New Jersey, si imbuca alla festa grazie a Manny e riesce finalmente a farsi notare da Wallach, che la vuole sui suoi set, la mattina successiva.
Quindi Jack Conrad, una delle più grandi star del muto, che lavora alla MGM per Irving Thalberg, collezionando mogli e amanti e riuscendo ad attraversare le insidie di una vita al limite, con l’aura di chi sembra intoccabile, anche grazie all’amicizia di George Munn, fidatissimo produttore.
Il numero principale della serata è affidato a Lady Fay Zhu, un’ammaliante artista di varietà, che per la Kinoscope si occupa soprattutto dei geniali intertitoli dei loro film muti.
Fondamentale per la riuscita della festa è l’orchestra jazz guidata dal trombettista afroamericano Sidney Palmer, un talento forse sprecato in quel contesto.
La mattina successiva sui set polverosi e rumorosi in mezzo al deserto californiano Nellie LaRoy diventerà rapidamente una star, la nuova “It girl” di Hollywood, sui rotocalchi di tutto il Paese, anche grazie agli articoli firmati da Elinor St. John, mentre Manny, preso sotto la sua ala da Jack Conrad, si dimostrerà essenziale per convincere le comparse recalcitranti a tornare nei ranghi e per recapitare al bizzoso regista tedesco Otto Von Strassberger la macchina da presa necessaria a girare una scena romantica proprio un attimo prima degli ultimi bagliori del crepuscolo.
Lo spettacolo può continuare, ma su quel piccolo microcosmo disfunzionale eppure idolatrato, sta per piombare l’ombra lunga di un’innovazione destinata a rivoluzionare ogni cosa: il sonoro.
Diciamolo subito: Babylon non è un film perfetto, il suo terzo atto non riesce a sostenere adeguatamente l’eccitazione sensazionale generata dai primi due, la scrittura drammatica non è sempre sorvegliata, ci sono momenti in cui il racconto sembra slabbrato, fuori controllo e alcuni protagonisti non hanno lo stesso peso di altri, in un’opera che vuole essere inevitabilmente corale.
Ma di fronte all’ambizione smisurata dell’impresa del trentasettenne Damien Chazelle, alla magniloquenza lussureggiante della sua messa in scena e al delirio rutilante di immagini e musica, che il film riesce ad orchestrare con una potenza che lascia francamente sbalorditi, viene voglia di perdonargli ogni sbavatura, ogni errore, ogni svisata.
Utilizzando personaggi realmente esistiti, altri abilmente camuffati dietro nomi di fantasia, altri radicalmente inventati, il regista di La La Land firma la sua grande opera al nero: un dramma decadente e disperato su un mondo inconsapevole di ballare proprio sull’orlo dell’abisso.
La ricostruzione dei set eroici e pionieristici dei tempi del muto è quanto di più lontano si possa immaginare dalla Hollywood sterilizzata e moralista di oggi: confusione assoluta, approssimazione selvaggia, sublime e cialtrona artigianalità, unite al constante pericolo di non riuscire mai a finire vivo la giornata, per un incendio, per una spada di scena troppo affilata, per un incidente evitabile.
Il sesso goduto senza ritegno, anche come strumento di affermazione personale, l’assenza di regole o limiti, il tempo vissuto come se fosse infinito e immutabile: sono tutti elementi che informano il racconto di Babylon facendone una grande elegia su un’epoca passata e irripetibile e su una città – la Los Angeles del cinema – ancora giovanissima e tutta da costruire.
L’invenzione del sonoro in presa diretta, dopo il grande successo della Warner con Il cantante di Jazz, cambierà le abitudini di quel mondo solo fino ad un certo punto, mentre molti protagonisti diventeranno comprimari e altri li sostituiranno senza cerimonie. Memorabile in proposito è la prima scena girata da Nellie Le Roy in uno studio di posa insonorizzato, tra caldo insopportabile, silenzio impossibile da ottenere, segni da rispettare per favorire l’unico microfono fisso e un tono di voce da mantenere costante per non pregiudicare la registrazione.
Intelligentemente il film costruisce quattro parabole diverse per i suoi protagonisti, alcuni già in vetta, altri velocemente in cima, altri ancora destinati a scoprire tutta l’amarezza e i pericoli di un successo effimero e fugace.
L’incipit che si prolunga per 25 minuti prima dei titoli di testa e la successiva ricostruzione di un’ordinaria giornata sul set sono puro spettacolo, montato ad un ritmo parossissistico. Poi il film, dopo la parentesi newyorkese e la formidabile sequenza dell’introduzione del sonoro, sembra adagiarsi un po’, rallentare, con un paio di lunghe scene – quella del serpente e quella con il gangster James McKay – che funzionano poco, tra volgarità, provocazione e maledettismo superfluo.
Se Diego Calva nei panni di Manny ha il ruolo più lineare del testimone, Margot Robbie brilla di una luce tutta sua nei panni succinti della selvaggia Nellie, a cui il film regala un’uscita di scena straziante, che ricorda quella di Monroe Star ne Gli ultimi fuochi di Kazan. Brad Pitt è semplicemente sublime nella parte dell’ineffabile Jack, con la sua mascella squadrata, l’amore per la lingua italiana., le romanze d’opera e le belle donne, capace di passare in un mese dalla luce accecante all’oblio, una sorta di Gatsby senza rimpianti.
Più in ombra Jovan Adempo nel ruolo di Sidney Palmer, ma è il suo personaggio ad essere meno definito e centrale nel racconto. Infinta invece la schiera dei caratteristi, tra cui si distinguono Jean Smart, Li Jun Li, Spike Jonze, Katerine Waterson e Tobey Maguire, a cui la sceneggiatura regala momenti, scene, battute sufficienti per farsi ricordare.
La colonna sonora del fidato Justin Hurwitz è un tripudio energia, la fotografia di Linus Sandgren in pellicola 35mm non ha paura di qualche imperfezione e qualche flare, restituendo la densità crepitante di questa epopea.
Babylon è un film su un sogno infranto, nella maniera più tragica e amara possibile, sulla dissipazione del proprio talento, vero o presunto che sia, sul tempo che passa pericolosamente, travolgendo il passato e lasciandone solo un ricordo falsato dalla nostalgia.
Ad un certo punto uno dei personaggi per darsi un tono intellettuale, in un contesto che ne è completamente privo, ricorda di aver conosciuto Proust: e cos’è Babylon se non la monumentale recherche di Chazelle, una riflessione sul tempo perduto, adeguata al milieu volgare e sanguigno di Hollywood?
Chazelle ci porta a condividere l’euforia del baccanale e l’ebrezza del successo più accecante e poi ci precipita nell’umiliazione e nella polvere del ridicolo, fino a trascinarci letteralmente nelle viscere della terra, un un girone dantesco di freaks e depravazione.
Il suo è un film sul fallimento, sulle occasioni perdute e forse rimpiante dai pochi che hanno vissuto abbastanza a lungo per poterlo fare. Un fallimento non solo personale, ma di un’intera generazione, che ha vissuto per un breve periodo un eden irripetibile, bruciando il cerino della vita da entrambi i lati.
Ma se inevitabilmente la parte conclusiva di una parabola così cupa è quella più problematica e imperfetta, Babylon ha la forza di trovare invece un finale memorabile, ambientato venti anni dopo, in una grande sala cinematografica, in cui come in una sorta di cura Ludovico, l’unico sopravvissuto si trova davanti agli occhi la propria storia e quella perduta di quegli anni, trasformata dalla macchina-cinema in nuovo spettacolo e nuove immagini, per divertire ed emozionare un pubblico inconsapevole di quanto dolore, quanti desideri e quanta vita sia stato necessario consumare per produrla.
In quelle immagini così dissonanti e vertiginose, che poi finiscono per abbracciare tout court l’intera storia del cinema, dai Lumière a Cameron, sembra avverarsi anche l’amarissima profezia che la giornalista Elinor St. John riferisce a Jack Conrad: quando ormai non sarai altro che cenere, la tua immagine sarà ancora lassù sullo schermo, resa eterna da quello che Jean Cocteau chiamava “la morte al lavoro sul volto degli attori“: il cinema.
Il film di Chazelle vuole essere il riflesso scuro dello specchio di Cocteau, in cui il superamento illusorio della mortalità, nasconde in sé la constatazione della fragilità umana, il suo memento mori.
Accolto freddamente in patria, quasi ignorato dal pubblico americano, che difficilmente avrebbe potuto identificarsi con un gruppo così eterogeneo e malinconico di antieroi, Babylon è il più classico dei film maledetti, fuori dal tempo e dalle mode, ingombrante e smisurato, segno di un talento tanto feroce quanto autodistruttivo.
Salvatelo voi: cercatelo nella sala più grande e antica in cui lo proiettano e abbracciate queste tre ore senza paura, perchè Babylon è davvero uno dei pochi film di chi al Cinema crede ancora.
Titanico.
Dal 19 gennaio in sala.