Laureato alla Tisch School of Arts della NYU, Sean Baker è stato a lungo nel cono d’ombra del cinema indie americano, più marginale, poi improvvisamente il successo di Tangerine (2015), il suo quinto lungometraggio, girato tutto con tre iphone, prodotto dai fratelli Duplass e interpretato da due transessuali, ha cambiato le cose radicalmente.
Un sogno chiamato Florida presentato alla Quinzaine nel 2017 è stato solo il preludio di questo Red Rocket, per la prima volta nel concorso grande di Cannes.
Questa volta Baker si sposta a Texas City, nei sobborghi, a cui ritorna Mikey, un ex porno attore, costretto a lasciare Los Angeles, dopo una carriera ventennale assolutamente rispettabile, ma evidentemente bruciata in troppi eccessi.
Lo vediamo su quegli autobus, che attraversano incessantemente le strade d’america, arrivare a piedi e senza alcun bagaglio, a casa della ex moglie, anche lei partner dei set a luci rosse, che vive con la madre.
Ha bisogno di un posto dove stare per rimettersi in sesto e ricominciare da capo. Solo che la moglie non ha alcuna intenzione di riprenderselo in casa.
Alla fine cede strappando a Mickey la promessa di contribuire almeno all’affitto.
La ricerca di lavoro però di scontra con quel buco ventennale che il protagonista cerca di spiegare con cautela prima, ma anche con orgoglio.
L’unica cosa che può fare è vendere fumo per l’anziana signora che gestisce il traffico nei sobborghi.
Pian piano Mickey trova nuove connessioni, con il vicino Lonnie, a cui la moglie faceva da babysitter quando era ragazzino e soprattutto con Strawberry la diciassettenne commessa di Donut Hole, che sembra ricambiare le sue attenzioni…
La nuova commedia umana di Baker ha molte delle qualità che avevamo già apprezzato in Un sogno chiamato Florida. Ma lì c’era il volto dell’immenso Willem Dafoe a dare credibilità al protagonista, guardiano di un mondo da favola travolto dalla crisi.
Questa volta il protagonista è Simon Rex, una carriera televisiva, la serie Scary Movie e un paio scene porno, girate a diciannove anni, che ne hanno condizionato anche la carriera successiva. Eppure Rex è una scoperta, la sua faccia da schiaffi è perfetta per la parte di uno sconfitto, che sogna un ritorno impossibile da talent scout.
Tuttavia si resta abbastanza indifferenti ai suoi affanni quotidiani per ritrovare una strada dopo il deragliamento.
Lo sguardo di Baker è sempre meravigliosamente affettuoso, nei confronti di un’umanità marginale, battuta dalla vita. L’urgenza che c’era nei lavori precedenti qui è meno evidente. Il film è più costruito e programmatico.
C’è un ironia malinconia che lo attraversa, anche quando il dolore nascosto sotto l’apatia, la solitudine, la deriva, risale infine a galla. A Baker bastano una foto su un comodino e due parole, per raccontare l’angoscia di una madre a cui hanno portato via il suo unico affetto vero.
E’ una parentesi brevissima, che non ha bisogno di sottolineature, ma che dice molto dell’apatia in cui sembra precipitata la donna.
Peccato resti marginale.
La drammaturgia è come di consueto minima, costruita su una progressione di momenti, serate, pomeriggi assieme, gite al centro commerciale o al negozio in cui lavora Strawberry.
Il film è ambientato durante l’estate, che precede l’elezione di Trump ed è punteggiato dalle sue parole: Red Rocket è evidentemente una nuova radiografia di quel che resta del sogno americano.
Un sogno che non significa più niente, avvelenato nelle periferie dell’impero in cui si vive con nulla e per nulla: è vero la vita continua a scorrere, ma anche l’illusione della fuga si è trasformata in un inganno, una promessa da pappone, una scorciatoia che conduce a nuove infelicità.
Resiste forse solo un principio d’ordine femminile, retto da un matriarcato illuminato e da una solidarietà familiare e di genere.
Basterà?