Potente e crepuscolare, il secondo film dell’iraniano Ahmad Bahrami debutta ad Orizzonti, ma avrebbe certamente meritato il concorso ufficiale di Venezia 77, per la forza con cui riesce a raccontare un piccolo microcosmo, sperduto nell’entroterra iraniano.
The Wasteland è appunto il viaggio in una terra desolata, abbandonata da tutti, una grande cava in cui una dozzina di uomini, donne, bambini fabbricano mattoni, migliaia di mattoni, per un padrone, che vive in città e li paga una volta all’anno.
L’uomo di fiducia del proprietario è Lotfollah, che ha sempre vissuto e lavorato nella fornace. E’ ormai anziano, con una lunga barba bianca. La sua vita è trascorsa tutta lì in quella terra arsa dal sole e dal calore della produzione. Si occupa di sedare le rivendicazioni del gruppo dei curdi, cerca di trovare una soluzione ad un matrimonio, che il padre della sposa ostacola ad ogni costo, accompagna in città una delle operaie, di cui nel tempo si è innamorato: si offre, di volta in volta, di fare da portavoce, da pacere, da mediatore.
Solo che la produzione di mattoni non è più redditizia come una volta e il padrone ha deciso di vendere.
Attorno al suo discorso agli operai, ripreso più volte nella prima parte del film – di volta in volta dal punto di vista dei diversi personaggi – il film troverà il modo di soffermarsi sulle storie di ciascuno, raccontandoci le loro ansie, i loro piccoli desideri, le loro paure.
Con un controllo dello spazio memorabile, che usa il formato stretto e il bianco e nero, Bahrami tiene nascosto il paesaggio incredibile della fabbrica a cielo aperto, ponendolo, con una panoramica improvvisa, proprio al centro del suo film, quasi a voler rievocare la centralità di quello spazio nella vita dei suoi protagonisti.
Uno spazio che la routine ha reso invisibile a loro, come a noi, schiacciandoli nella fatica del lavoro, nella vita perduta in piccole stanze di fortuna, in uno sfruttamento totalizzante, che non ammette pause o vie di fuga.
Bahrami usa la sintassi cinematografica, con una sapienza e un’efficacia che toglie il fiato. Costruisce una prima parte di allitterazioni e ripetizioni, di flashback e anticipazioni, in un racconto corale. Nella seconda invece concentra il destino della grande fabbrica di mattoni sulle spalle di un solo uomo, Lotfollah, che apre il film con il suo carretto e lo chiude con una scena di identificazione assoluta e sacrificio.
Quello che è stato il suo mondo per una vita intera, è arrivato alla fine, improvvisamente. Davanti agli altri personaggi di The Wasteland c’è la fuga, con un fagotto a raccogliere le poche cose possedute, c’è il ritorno al villaggio, c’è la sfida della città. Non per Lotfollah, che in quella fabbrica è nato e che fuori da quello spazio non ha altro orizzonte.
Bahrami non ha bisogno del formato largo, nè dei colori caldi e terrosi della sua wasteland iraniana: sa quando mostrare lo spazio e quando raccontare attraverso i volti, i corpi, le parole.
Il film cresce per accumulo, fino ad implodere, in un ultimo atto di rara bellezza, in cui finalmente vuoto, è il grande spazio della cava e della fornace a diventare protagonista.
Bahrami poi ci regala un finale memorabile, che ribalta quello di Post Mortem di Pablo Larrain, ma che comunica la stessa rabbia implacabile e la stessa disperazione: un lento inesorabile fade to black, che lascia sconvolti e che non si dimentica.