Chernobyl. L’utopia è una torcia che si spegne

Chernobyl ****

Chernobyl, miniserie HBO in cinque episodi, è potente e ammaliante al pari di un grande classico della letteratura russa. Si apre con la morte di Valerij Alekseevič Legasov, vicedirettore dell’Istituto dell’energia atomica Kurchatov, ingegnere nucleare devoto alla verità empirica della scienza, impiccatosi nel 1988 nella sua casa di Mosca esattamente due anni e un minuto dopo l’incidente, e termina con un processo al potere neutralizzato dal potere. Legasov affida la verità a un nastro registrato. È un testamento morale che contrasta la volgarità della menzogna. Legasov è un personaggio tragico, da brividi, assolutamente centrale. Chernobyl vola oltre la dimensione del documentario, vocazione attestata, tra l’altro, dalla presenza di un personaggio inventato, dal valore simbolico, Ulana Khomyuk, scienziata dell’Istituto per l’energia nucleare dell’Accademia di Scienze della Bielorussia. Il susseguirsi degli eventi non si appiattisce a banale cronaca, ma diviene storia. La fiction riprende la surreale quotidianità di quei giorni, conferendole spessore drammatico. Una regia ispirata e attori in stato di grazia si associano alla nitidezza della scrittura. Non è mai stato realizzato, almeno in termini cinematografici, nulla di più autentico sulla tragedia.

Consumatosi il suicidio di Legasov, superlativo proemio che introduce lo spettatore al freddo duello tra scienza e ideologia, la serie riannoda il filo delle vicende, torna indietro e procede con linearità cronologica. Alle ore una, ventitre minuti e quarantacinque secondi, nella notte tra il 26 e il 27 aprile del 1986, un reattore della centrale nucleare costruita a pochi chilometri dalla cittadina di Pripyat, nell’odierna Ucraina, un impianto del comune tipo RBMK, moderato a grafite e della potenza installata di un milione di Kilowatt, esplode durante un test di sicurezza sulle turbine. Il risultato è uno tsunami di radiazioni letali, l’inaugurazione di una geografia del territorio marcata dai radionuclidi.

In Chernobyl la negazione dei fatti si fa apoteosi, tanto che la visione della serie sarebbe perfetta in un corso di epistemologia. Difficile immaginare un’illustrazione migliore di concetti quali verifica e falsificazione. Un esempio? I vertici del Comitato esecutivo locale interpretano la rilevazione di 3,6 röngten come l’effettivo e incontestabile valore delle radiazioni emesse dalla centrale esplosa e non notano (non vogliono notare? O, peggio ancora, non possono notare?) la solare evidenza. La taratura massima dei dosimetri è proprio di… 3,6 röngten! “Non è tanto terribile” è la frase che ricorre nelle bocche dei sacerdoti dell’ideologia. L’atto di fede matura in espressioni devozionali del tipo: “Se lo Stato socialista dice che va tutto bene…”. Eppure non va tutto bene, perché il nocciolo del reattore quattro della centrale Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin, esposto all’aria, ai venti, alle correnti, scarica all’aperto 15mila röngten ogni ora, il corrispondente di due bombe atomiche di Hiroshima. Gli atomi di uranio-235, avverte l’esperto Legasov, l’unico tra i consiglieri radunati dal Cremlino in grado di tirare fuori la testa dalla coltre di omertà, “equivalgono a pallottole che penetrano ogni cosa”, muri, cemento, e corpi umani. Vigili del fuoco, sommozzatori, “liquidatori”, soldati, volontari, minatori sono inviati laggiù, a combattere il mostro, con scarse o ridicole precauzioni antiradiazione. I cinquantamila abitanti di Pripyat, anziché essere evacuati con urgenza, vengono fagocitati da una cappa di segretezza burocratico-militare per trentasei ore.

Nel secondo episodio, Legasov dice a Boris Scherbina, vicepresidente del Consiglio dei ministri e capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia: “E’ qualcosa che non è mai avvenuto prima su questo pianeta”. Un’anticipazione della fine del mondo. Il filone mistico-escatologico occupa, all’interno delle letture dell’evento, un posto di riguardo. Nell’Apocalisse “il terzo angelo suonò la tromba e dal cielo cadde una grande stella, ardente come una torcia, che piombò su un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque, il nome della stella è Assenzio; un terzo delle acque diventò assenzio e molti uomini morirono a causa di quelle acque, perché erano divenute amare”. Dal nome russo dell’erba, artemisia absynthium, deriverebbe il toponimo Chernobyl. In bilico tra immanenza e poesia, la serie imbastisce una dialettica tra terra e cielo, tra visibile e invisibile. Chernobyl libera la sua magia narrativa dalla brutalità dei fatti.

C’è un passaggio crudele, insostenibile per l’etica perversa e la politica deviata che sottende, un’immagine cristallizzata, di esplicito terrore, che vale da sola l’intera serie. È il volto di un capo ingegnere, condotto da uomini dell’esercito verso l’ara del sacrificio atomico: una scena che fa paura. A lui è ordinato di recarsi sull’incandescente tetto della centrale, alle prime luci dell’alba, per registrare con gli occhi cosa sia effettivamente successo e per riportarlo con oggettività ai rappresentanti del Popolo. Ciò che il tecnico non deve vedere è scritto a priori nelle Tavole sacre del Socialismo. “Non hai visto della grafite perché non c’era”. Eppure la grafite, segno dell’esplosione ritenuta matematicamente impossibile e sintomo della gravità estrema della situazione, è dappertutto. Chi ha commesso l’errore fatale? Ulana Khomyuk, impegnata in una complicata indagine, rintraccia in un ospedale di Mosca Akimov e Toptunov, i principali indiziati, e ne raccoglie la sincera testimonianza. La stessa Khomyuk, scienziata pura, deve compiere uno sforzo per dare un senso alle parole dei tecnici. È opportuno soffermarsi su questa inversione delle regole induttive della conoscenza e del common sense. È la chiave per comprendere la logica distorta di un paradigma storico. Non servirebbe altro per esplicare, con chiarezza pedagogica, la psicotica assurdità del comunismo sovietico, e per estensione di tutte le società chiuse. “Come può esplodere un reattore RBMK?” è una domanda retorica, ricorrente, senza sbocco, e la scoperta dei difetti connessi al tasto AZ-5 e alle barre di controllo, un atto di effrazione eterodossa, la moderna cometa destinata a rompere la regolarità del cosmo marxista.

Il muro di gomma si scioglie con lentezza ed è emblematica la farraginosità con cui le notizie risalgono la catena di comando, fino alle orecchie di Mikhail Sergeyevich Gorbachev, segretario generale del PCUS, l’uomo della glasnost (trasparenza) e della perestrojka (ricostruzione), qui ritratto nelle vesti di un capo comprensivo, attento alle analisi di Legasov e ben disposto verso le soluzioni avanzate dallo stesso scienziato al fine di evitare il collasso della centrale. Tuttavia, Gorby è un uomo incastrato nella melma di apparato. Il KGB, vera anima del Leviatano russo, è onnipresente. Le assurdità si accumulano. L’URSS è una nazione che convive con “l’ossessione di poter essere umiliata” e pertanto non chiede aiuti ai paesi capitalisti e quando fa un’eccezione –  un robot ottenuto in prestito dalla polizia della Germania Ovest – si concede il lusso di sminuire le misurazioni reali, con esiti nefasti, pur di non dire troppo di sé e del terrificante trauma in corso.

La preponderanza di tinte desaturate, la resa vintage delle immagini, il privilegio concesso al verde e al blu, l’uso mai banale del ‘ralenti’, le pennellate di oscurità adoperate nel dipingere le interminabili notti, i graffi di luce giocati nei poveri interni, sono tutti accorgimenti giostrati con intelligenza da Johan Renck, regista con poca serialità alle spalle (qualche episodio di Breaking Bad e di The Walking Dead) e con tantissime esperienze, di peso, nel campo della pubblicità e dei videoclip musicali (Madonna, New Order e David Bowie su tutti). Con Craig Mazin, sceneggiatore di film a sfondo comico o parodistico, da Scary Movie 3 a Superhero, Renck compone un duo di outsider, una coppia eccentrica rispetto alla materia trattata: una scelta vincente.

Rigore filologico, tono elegiaco, tocco pudico e sequenze di ieratica bellezza sono elementi dell’estetica di Chernobyl. La serie nobilita i caduti sul campo, riabilita eroi sconosciuti, e inchioda il reale colpevole, cioè lo Stato. Inoltre, contribuisce a riaffermare la dignità di quei luoghi, sottraendoli al “voyeurismo del disastro”. La zone of exclusion, l’area proibita dello stalker, svela i connotati filosofici del contemporaneo, l’eterno presente che promuove l’incidente a “manifestazione delle relazioni tra i fenomeni” (Paul Virilio). Le scene clou riscattano il cuore nobile del popolo russo e al tempo stesso innalzano un monumento al proletariato. Ai veri proletari, quelli che battono le mani, sporche di terra, sulla giacca candida del Ministro delle miniere, appena stirata da qualche ‘compagna’ moscovita, per poi dirgli: “solo ora rappresenti sul serio l’industria mineraria”. I sommozzatori calati nelle viscere infernali del reattore, i liquidatori sguinzagliati nelle campagne per eliminare gli animali domestici, i minatori nudi così simili ai dannati danteschi, i “biorobot” reclutati per spazzare via la grafite da ‘Masha’, la porzione di tetto dove bastano due minuti di permanenza per morire: non è difficile rinvenire suggestioni di Dostoevskij, Gogol’, Tarkovskij, Salamov, Esenin, Zamjatin, Sokurov e altri. Ribadiamo: è letteratura distillata in gocce.

Chernobyl, girata in Lituania nei pressi di una centrale ‘gemella’, ha ricevuto recensioni entusiastiche sia dal pubblico sia dalla critica. La serie non ci nasconde niente. Nella sua essenzialità, è agli antipodi del politically correct. I corpi condannati alla decomposizione, scarnificati da piaghe oscene, rotti da conati di vomito, sono esibiti con crudezza non compiaciuta.

Si evince, in Renck e in Mazin, la necessità di preservare il ricordo delle vittime innocenti e degli improvvisati soccorritori accorsi sul luogo dell’incidente. “Questa serie è dedicata a loro”, ha dichiarato Renck. Il regista svedese ha inseguito “il lato umano, il peggio e il meglio dell’umanità” e ha posto l’accento sulle conseguenze “di una tragedia con cui avremo a che fare ancora per moltissimo tempo”. Affermazione inoppugnabile. È sufficiente pensare ai dati contenuti in un rapporto pubblicato in Bielorussia nel 1997, quando l’Unione Sovietica non c’era più, ove si certifica come un bielorusso su cinque vivesse in zone contaminate da cesio-137. Aumento esponenziale di tumori, decessi prematuri, danni permanenti al patrimonio genetico, inquinamento perenne, zone sgomberate per l’eternità. Ecco l’eredità trasmessa alle future epoche e generazioni.

Una riflessione sul cast. Emily Watson interpreta Ulana Khomyuk. Stellan Skarsgård veste i panni di Boris Shcherbina. I due si ritrovano sul set ventitre anni dopo Le onde del destino di Lars Von Trier. Jared Harris è Valerij Legasov. Che dire? La loro bravura è quasi imbarazzante. Legasov/Harris e Shcherbina/Skarsgård intrecciano dialoghi memorabili e meriterebbero una lode per ogni secondo di recitazione. Tutti gli attori funzionano a meraviglia. La convinzione dimostrata nell’adesione ai ruoli è degna di encomio. I volti di Watson, Skarsgård, Harris e degli altri protagonisti, maschere di un’unica tragedia si fondono alla perfezione nel tessuto del racconto. La splendida puntata finale, quella del processo ad Anatolij Dyatlov (un mefistofelico Paul Ritter) e soci, anche da sola, assegna a Chernobyl il passaporto per l’empireo delle serie tv.

“Il nostro obiettivo è la felicità di tutta l’umanità” recita uno striscione sulla facciata di una palestra abbandonata. La frase oracolare pronunciata da Legasov, in chiusura, è la negazione di tutte le utopie: “Ogni bugia che pronunciamo comporta un debito verso la verità”. L’utopia muore, l’utopia è una torcia che si spegne.

CONSIGLIATA: a chi ha un ricordo personale di quella primavera negata del 1986, a coloro che non rinuncerebbero mai ad un abbraccio.

SCONSIGLIATA: a chi è affezionato alla sua lampada UVA estate e inverno, a coloro che pensano di saperne di energia nucleare anche se lavorano in una fabbrica di scarpe.

TITOLO ORIGINALE: Chernobyl
NUMERO DI EPISODI: 5
DURATA DEGLI EPISODI: Un’ora circa l’uno
DISTRIBUZIONE originale
: HBO

PROGRAMMAZIONE in Italia: dal 10 giugno su Sky Atlantic

UN PENSIERO PER RIASSUMERE LA SERIE: “Siamo spesso silenziosi. Non gridiamo e non ci lamentiamo. Sopportiamo, come sempre, sopportiamo. Anche perché non ci sono ancora le parole. Abbiamo timore ad affrontare questo argomento. Non sappiamo da che parte prenderlo. Un’esperienza insolita, questioni insolite. Il mondo si è diviso: ci siamo noi, quelli di Černobyl’, e ci siete voi, tutte le altre persone. L’ha notato? Qui nessuno mette l’accento sulla nazionalità… si chiamano tutti černobyliani. Come se fosse un popolo a parte. Una nuova nazione.” Tratto da Preghiera per Černobyl’ di Svetlana Aleksievič, e/o Edizioni, libro fonte di ispirazione per Johan Renck. È anche la LETTURA che SUGGERIAMO.

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