American Gods 2. La caduta degli Dei

American Gods 2 **1/2

Eravamo rimasti ad una festa rutilante di colori al termine della quale Easter distruggeva la Primavera (e le campagne del Wisconsin) in un eccesso di rabbia, di fronte ad un incredulo Shadow e ad un compiaciuto Wednesday/Odino. Nel frattempo ne è passata di acqua sotto i ponti: gli showrunners Fuller e Green hanno interrotto la propria collaborazione con la casa di produzione Starz e sono stati sostituiti da Jesse Alexander, peraltro già tra gli sceneggiatori della prima stagione.  Alcuni attori se ne sono andati, tra tutti Gillian Anderson (Media) e Kristin Chenoweth (Easter) e per un certo periodo la seconda stagione è stata ad un passo dall’essere cancellata. E invece, alla fine la nave è salpata.

Ci ri-troviamo quindi in cammino, attraverso Kentucky ed Illinois per raggiungere la sede dell’incontro che Wednesday/Odino (Ian McShane) ha programmato in Wisconsin con le antiche divinità. Obiettivo: avere il loro appoggio nella guerra imminente con i Nuovi Dei. In una House of Rock fiocamente illuminata, traboccante di vecchi giocattoli e di inquietanti macchine animate che si muovo al ritmo di musichette da giostra falsamente allegre, Shadow (Ricky Whittle), Mr. Wednesday, Mr. Nancy/Anansi (Orlando Jones), Bilquis (Yetide Badaki), raggiungono la grande giostra il cui moto li trasporta nella mente di Odino. Qui avviene l’atteso incontro tra i “vecchi dei, dimenticati in una terra senza dei”.

L’esito non è però risolutivo: alcune divinità infatti non prendono una posizione chiara, come Bilquis, che pensa di sfruttare gli strumenti offerti dai nuovi dei per diffondere  il suo messaggio, mentre altri sono apertamente  contrari alla guerra, come Mama-ji/Kali (Sakira Jaffrey). Ci sono anche divinità che seguono Odino: quasi tutte di malavoglia, perché hanno perso una scommessa come Czernobog (Peter Stormare) oppure per pagare vecchi debiti come il Leprecauno (Pablo Schreiber) o il Jinn (Mousa Kraish): sono in parecchi insomma anche tra le schiere ‘degli antichi’ a nutrire del risentimento verso il  Padre degli Dei, a cominciare da Laura (Emily Browning), la moglie di Shadow, morta proprio per ordine di Odino.

Odino è così: un personaggio che non è facile amare e del resto nessun egocentrico Dio della Guerra potrebbe esserlo. Durante lo sviluppo della stagione ci sarà occasione per conoscere meglio la sua storia pregressa in America e il contrastato rapporto con il figlio Donar/Thor (Derek Theler). L’interpretazione fornita da Ian McShane è ancora una volta di grande spessore e anche superiore alla precedente per una varietà di tonalità emotive e di ruoli che rende Wednesday di volta in volta simile ad un intrattenitore, ad un guitto, ad un ladro esperto in travestimenti o ad un cinico leader pronto a tutto pur di vincere la guerra: nel quinto episodio lo vediamo perfino ballare e cantare in uno spettacolo di cabaret. Il tentativo della sceneggiatura è chiaramente di fornire maggiore spessore drammatico ai personaggi di Shadow e di Wednesday, scandagliando il loro passato e così avvicinandoli emotivamente allo spettatore.

Se gli Antichi cercano di compattare il fronte, i Nuovi Dei non stanno certo a guardare e con un intervento degno di un commando armato attaccano il Diner gestito da Mama-Ji/Khali, uccidendo Zorya Vechernyaya e rapendo Shadow: solo l’intervento di una testarda e determinata Laura, accompagnata da un riluttante ma sempre disponibile Mad Sweeneny consentirà di liberarlo da una (improbabile) tortura in stile Matrix.

Abbiamo imparato ad apprezzare il coraggio e la vitalità (!) di Laura. Per quanti hanno letto il romanzo il suo personaggio continua ad essere quello che più ha guadagnato nel complesso della trasposizione televisiva, risultando arricchito per numero di esperienze e per incidenza nell’evoluzione della storia.  Anche in questo caso va riconosciuta la bravura del cast: Emily Browning è perfettamente a suo agio nel ruolo, così come Pablo Schreiber: il rapporto di amore/odio tra Laura e Mad Sweeney porta agli scambi di battute meglio riusciti della stagione.

Anche Laura è in viaggio, proprio come gli altri personaggi di American Gods. Il tema del viaggio resta uno dei principali nella letteratura americana ed il romanzo di Gaimann ne fa una straordinaria rivisitazione mescolando verità e finizione, mitologia ed analisi sociale.

Anche gli dei sono arrivati in America viaggiando con gli uomini  che si sono spostati da altri continenti: che essi fossero schiavi africani, cittadini irlandesi o deportati inglesi fa poca differenza. La vicenda è piuttosto il racconto di un percorso che quello di un arrivo, un di-vagare di uomini e Dei sospeso tra azione teleologica e divertissement. Questo movimento, che sembra per lunghi tratti fine a se stesso, trova però nel romanzo una valenza formativa che ancora siamo lontani dal vedere nella trasposizione televisiva. Accanto al viaggio fisico abbiamo infatti quello introspettivo di Shadow: attraverso il recupero della memoria della madre egli viene spinto verso una riappropriazione della propria identità; attraverso la conoscenza di Wedmesday egli completa questa identità acquisendo il tassello mancante, scoprendo chi è suo padre.

Nel concitato finale di stagione che cerca di alzare il ritmo viene poi sviluppato un altro tema significativo e cioè quello della paura. Ad esso si intrecciano altri fili, altri temi: quello del controllo, quello del potere, quello della fede appunto. L’abilità dei Nuovi Dei nello sfruttare la comunicazione per incrementare le paure degli uomini – e quindi di fatto per controllarli – è un’altra scelta peculiare della serie rispetto al romanzo ed è certamente un segnale di come in questi anni il tema della paura sia diventato centrale nell’immaginario collettivo. Consideriamo infatti che Gaimann ha pubblicato il suo capolavoro fantasy nel 2001, ma lo ha scritto negli anni precedenti. Da allora il mondo è cambiato. Lo abbiamo visto anche in altre produzioni seriali, tra tutte Game of Thrones che, come argomentato tra gli altri da Dominique Moisi, ha dato rappresentazione a tutte le principali paure dell’uomo del XXI° secolo: attacchi terroristici, malattie incurabili, cambiamenti climatici. L’ottavo episodio “Moon Shadow” è quindi uno dei più interessanti per consentire un’analisi  dei cambiamenti che sono  intercorsi nella cultura di massa negli ultimi 20 anni.

Complessivamente il confronto con la prima stagione è decisamente negativo: non c’è più la ricchezza simbolica e immaginifica nella rappresentazione degli Dei: quelli già descritti hanno perso gran parte del proprio fascino, come accade a Blinquist,mentre quelli entrati in scena per la prima volta, come New Media, non lasciano il segno. Ci troviamo di fronte ad una transizione, solo in parte riuscita, verso una maggiore drammaticità dei personaggi.

Il confronto tra le due puntate dedicate al Leprecauno a riguardo è esemplare: se in A prayer  for Mad Sweeney (prima stagione) è un misto di magia e lirismo a prevalere, in Treasure of the Sun (seconda stagione) è piuttosto un tono più cupo e realistico a dominare. Una scelta interessante, ma che non riesce ad inserirsi con naturalezza nel mosaico narrativo e rappresentativo: non è un caso che questa ‘drammaticità realistica’ sia assente nel libro.

Pur conservando l’identità estetica che è stata il marchio di fabbrica della prima stagione, fatta di uno stile psichedelico, metallico e barocco,  a nostro avviso si è perso qualcosa del valore ipnotico della rappresentazione. La storia sembra essere troppo sfilacciata, per lunghi tratti dispersiva e non riesce ad accogliere il nuovo tono drammatico in modo organico.

C’è bisogno di un cambio di ritmo: serve quello cadenzato e marziale della Necessità per affrontare la terza stagione e superare le secche in cui la nostra nave si è arenata.

Titolo originale:  American Gods 2
Numero degli episodi: 8
Durata media ad episodio: 50 minuti
Distribuzione streaming: Amazon Prime

CONSIGLIATO: A chi si è innamorato dello stile visivo di American Gods e che, anche sulla base della lettura del libro di Gaiman, è disponibile a credere in una terza stagione migliore della seconda.

SCONSIGLIATO: A chi è affamato di sviluppo narrativo. Se non sopportate l’atteggiamento attendista, i finali aperti e la consapevolezza di dover attendere parecchi mesi per vedere come la storia andrà a finire, allora lasciate perdere.

VISIONI PARALLELE:

Gli Argonauti (Jason and the Argonauts), film del 1963 con la regia di Don Chaffey e gli effetti speciali di Ray Harryhausen. Il film ripercorre, in stile hollywoodiano, il viaggio di Giasone e degli Eroi greci alla ricerca del Vello D’Oro e quindi del ritorno a casa. La battaglia condotta con gli scheletri (naturalmente assente nel libro di Apollonio) è considerata da più critici un capolavoro di effetti speciali.

Dominique Moisi “Il trionfo della paura. La geopolitica delle serie Tv”, Armando Editore, 2017 ci racconta come le serie TV dopo l’11 Settembre 2001 abbiano rappresentato e analizzato la paura che pervade l’immaginario dell’uomo contemporaneo.

UN’IMMAGINE: La rievocazione di come nel 1938 Orson Welles terrorizzò gli americani con una trasmissione radio in cui descriveva un attacco alieno. Siamo nell’ultimo episodio della stagione, Moon Shadow, e la chiusura è la sintesi del potere dei media nel condizionare il pubblico: “Se è reale nella tua mente, è reale nel mondo” scandisce un luciferino Mr. World.

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