Lee Israel è stata una giornalista e biografa piuttosto nota negli anni ’60 e ’70: newyorkese di Brooklyn, scrive per Esquire un profilo della Hepburn, poco prima della morte di Spencer Tracy.
I suoi libri sull’attrice Tallulah Bankhead, sulla giornalista e concorrente di game show Dorothy Kilgallen la portano al successo, sino a comparire nella lista dei bestsellers del New York Times.
Una sfortunata biografia della regina della cosmetica Estée Lauder, a metà anni ’80, la fa precipitare nel cono d’ombra della celebrità. Nessuno vuole più i suoi pezzi, viene licenziata dal suo lavoro in redazione e la sua agente non sa come aiutarla. Lee è insopportabile, assai poco mondana, beve come una spugna e non ha paura di inimicarsi il mondo intero. Vive da sola in un piccolo appartamento con una gatta, la sua unica compagna di vita.
Toccato il fondo, della sua lunga carriera, incapace di pagare l’affitto o il conto del veterinario, scopre di potersi guadagnare da vivere, falsificando lettere di personaggi famosi del novecento e vendendole a librerie e collezionisti, desiderosi di avere memorabilia ‘originali’ dei loro scrittori o attori preferiti.
Siamo nei primi anni ’90, quel mercato è ancora piccolo e affidato a pochi amatori. Lee acquista macchine da scrivere usate, frequenta le biblioteche per recuperare originali e autografi e arriva persino a sostituire lettere originali con le sue copie.
Una frode che la sua acuta intelligenza trasforma in piccole opere d’arte, documenti e lettere, capaci di soddisfare davvero i potenziali acquirenti, ben più delle banali e quotidiane comunicazioni originali.
Ad aiutarla a vendere i suoi lavori un altro spiantato del demi-monde letterario newyorkese, Jack Hock, omosessuale decadente e autodistruttivo, disposto a tutto pur di condividere una lunga giornata di bevute.
Il film di Marielle Heller è nato dal memoir che Lee Israel ha scritto nel 2008 raccontando la sua incredibile storia. Nicole Holofcener l’aveva adattato per il grande schermo e per Julianne Moore, ma quel progetto non è mai andato in porto, lasciando a Melissa McCarthy un ruolo finalmente adulto, complesso, carico di sfumature e di possibilità.
Abbandonate per un attimo le sue commedie demenziali, l’attrice, che ha debuttato in tv nello show di Jenny McCarthy alla fine degli anni ’90, per poi affermarsi nel corso di una carriera cinematografica che ormai è lunga quasi vent’anni, raramente ha avuto modo di uscire dal cliché che si è costruita nel tempo, anche grazie ad una fisicità strabordante e molto indovinata, per i suoi ruoli da comedian sboccata ed eccessiva.
Qui alle prese con un ruolo drammatico e sgradevole, lo riempie della sua contagiosa umanità, facendone il ritratto di una perdente testarda e indurita dalla vita, con cui non si può che simpatizzare.
Peccato che il titolo italiano banalizzi l’originale Can you ever forgive me? immaginato da Lee in una lettera di Dorothy Parker e che calzava a pennello, anche per raccontare la propria storia di cinquantenne, costretta a ricominciare da capo.
Scrittrice sferzante e ingegnosa, intellettuale sgradevole e solitaria, Lee condivide lo stesso carattere dei suoi falsi.
D’altronde non può che destare simpatia la sua geniale truffa, considerando che le vittime sono collezionisti facoltosi, feticisti idioti e inconsapevoli, desiderosi di attribuire uno straordinario valore economico a ordinarie conversazioni private.
Come lascia intendere il film della Heller alcuni degli oltre 400 falsi creati da Lee Israel sono probabilmente ancora felicemente in vendita o continuano a passare di collezionista in collezionista, con ancor più falsi certificati di autenticità.
E’ il mercato dell’arte a volerlo, è il nostro tempo a pretenderlo: d’altronde non è più davvero importante l’autenticità di un’opera, quanto il fatto che altri lo testimonino e che a quell’opera sia attribuito un valore sempre più grande.
La verità è un optional ingombrante, che la nostra morale non contempla più.
Copia originale in fondo, non fa che svelare il trucco, per una volta, costruendo contemporaneamente un doppio ritratto malinconico e disilluso, sincero e originale, che lascia in bocca un gusto agrodolce.
Il valore di questo secondo film dell’attrice Marielle Heller è proprio nel racconto di un piccolo milieu intellettuale, con le sue ipocrisie e le sue meschinità, sullo sfondo di una New York alleniana, bellissima e antica, fatta di librerie silenziose e speakeasy ospitali nel Village, che forse oggi non esiste già più.
Il film vuole essere anche una riflessione sull’atto di scrivere, sulla sua precarietà, e sul talento che è sempre difficile da riconoscere, soprattutto quando scorre controcorrente.
Una sorpresa.