Se la strada potesse parlare **1/2
Barry Jenkins dopo il sorprendente Oscar per Moonlight di tre anni fa, decide di adattare per il grande schermo il romanzo If Beale Street Could Talk.
La riscoperta del lavoro di James Balwin negli Stati Uniti è piuttosto recente e coincide con il documentario di Raoul Peck, I’m Not Your Negro, tratto da un suo lavoro incompiuto, Remember This House.
Baldwin nato nel 1924, newyorkese di Harlem, si trasferisce a Parigi e nel sud della Francia già del 1948. I suoi periodici soggiorni a New York gli consentiranno di rimanere in contatto con il suo paese: continuerà a scrivere delle sue contraddizioni, sosterrà le battaglie per i diritti civili degli anni ’60 e quelle in favore della libertà sessuale, sempre da una posizione pacifista.
If Beale Street Could Talk è la risposta, disillusa e poetica, alla profonda delusione per la morte di Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King. Eppure i suoi sentimenti non si trasformano mai in rabbia, in senso di rivalsa, quanto piuttosto in una profonda, lacerante malinconia.
Il compito scelto da Jenkins non era certo semplice: restituire sullo schermo la complessità del pensiero di Baldwin, ricostruendo le atmosfere e la temperatura di quei primi anni settanta, attraverso un racconto volutamente esemplare.
I protagonisti di Se la strada potesse parlare sono due giovanissimi, Tish e Fonny. Si conoscono da bambini, sono cresciuti ad Harlem, si son innamorati, sognano di vivere assieme in un grande loft, dove Fonny possa cullare il suo sogno di fare lo scultore, accanto alla donna della sua vita.
Solo che il destino ha scelto per loro un finale diverso, che si incarna in un poliziotto di strada, che dice di aver riconosciuto Fonny, come lo stupratore di una giovane portoricana. La giustizia è implacabile e classista, la vittima è tornata a Puerto Rico, l’unico alibi di Fonny è un amico, che è appena uscito di galera.
Nel frattempo Tish è incinta del loro primo figlio: assieme alla sua famiglia cercherà di far fronte alle spese, per scagionare Fonny e alla maternità imminente.
La storia è fin troppo lineare, ha assai poche sfumature, risente della tempesta emotiva e dei tempi, in cui era stata pensata. Ed anche se la tensione razziale non sembra mai essere scemata, negli Stati Uniti e altrove, il film sembra davvero un po’ troppo schematico.
L’esile canovaccio narrativo, che Jenkins decide di spezzare a metà, costruendo due piani temporali diversi, che raccontano l’innamoramento e la fatica dello stare assieme e poi la disillusione della distanza e della colpa, è reso ancor più problematico dalle scelte di una regia che continua, proprio come in Moonlight, ad utilizzare una messa in scena estetizzante, fatti di primi e primissimi piani, di musica onnipresente, di rallenty, sfocature, dialoghi languidi e tempi dilatati.
Se la strada potesse parlare lascia sullo sfondo le tensioni vere, i motivi, i contrasti, si limita ad accennarli solamente, mettendo la sordina ad ogni acuto, smussando ogni angolo, rendendo tutto molto caldo, rassicurante, in una visione un po’ troppo fatalista del mondo, che smarrisce la necessità, l’urgenza di raccontare.
Il suo diventa così un saggio un po’ stucchevole nella sua eleganza continuamente ricercata, un lavoro troppo scolastico, che vorrebbe invece confrontarsi con il racconto dell’essere afro-americano e con il pregiudizio, la diffidenza, l’ingiustizia, che ancora segnano in modo indelebile la questione razziale.
La fotografia tutta in interni di James Laxton, in cui le dominanti marroni, donano al film il look di una cartolina ingiallita, contribuisce a mettere una distanza eccessiva tra la temperatura emotiva che il racconto evoca e quella che effettivamente il film restituisce.
Basterebbe la primissima scena a raccontare l’approccio di Jenkins: una coppia ripresa con un plongé dall’alto, si muove lungo le mura di un strada. Una voce off comincia a raccontare la loro storia, poi la macchina da presa li riprende frontalmente, perfettamente illuminati in quella che appare la luce dell’alba o del tramonto. Ci accorgiamo che i loro vestiti sono perfettamente in sintonia, con giallo e blu a segnare cromaticamente un’inquadratura, che farebbe invidia a Wong Kar-Wai.
Qualcuno ha scritto che Jenkins si affida alla bellezza delle immagini contro le brutture del suo mondo. Forse è anche vero, eppure il film rimane fragile, irrisolto, dignitoso, ma come devitalizzato, immerso in tutti questi primi piani languidi e sfocati a cui manca però lo spirito sanguigno, che rende un racconto necessario, oltre che bello.
Altrimenti è tutta oleografia.
In Italia con Lucky Red dal 14 febbraio.