End of Justice – Nessuno è innocente

End of Justice – Nessuno è innocente
Roman J.Israel, Esq. **1/2

Lo studio legale di William Henry Jackson a Los Angeles, che porta il nome dello stimato professore di diritto penale, è sempre stato composto da due soli avvocati: il titolare e Roman J.Israel, un attivista dei diritti civili, tenacemente ancorato ai suoi metodi di lavoro e alle sue convinzioni personali.

Tra i due, i compiti erano rigidamente suddivisi: Roman si occupava di redigere gli atti, preparare i fascicoli e svolgere le ricerche; William era invece il volto pubblico dello studio, con i clienti ed in udienza.

Quando un ictus lascia William in coma in un letto d’ospedale, tutto ricade sulle spalle del testardo e spigoloso Roman, incapace di confrontarsi con le dinamiche e i compromessi, che regolano i rapporti tra accusa e difesa.

I familiari di William hanno deciso di chiudere lo studio e di affidare ad un ex alunno del professore, George Pierce, i fascicoli ancora aperti. Solo che Pierce è a capo di un grande studio con quattro sedi: l’antitesi del piccolo laboratorio artigianale, in cui Roman ha sempre lavorato.

Costretto così affannosamente a trovarsi un lavoro, assillato dai problemi economici, il protagonista prima si offre ad un’associazione per i diritti civili, dove conosce Maya, quindi, con le spalle al muro, tradisce la fiducia di un cliente, intasca una ricompensa che non gli spettava ed infine è costretto ad accettare le proposte di Pierce.

Assapora così, per un breve periodo, il sapore dolce del successo, ma a che prezzo?

Il film di Dan Gilroy, che segue il bellissimo e sinistro ritratto di un free lance senza scrupoli, Lou Bloom in Lo sciacallo – The Nighcrawler, è un nuovo amarissimo racconto al singolare.

Al centro della scena c’è ancora una volta un individuo solo, sull’orlo della disperazione, chiuso all’angolo dalla vita. Roman J.Israel a differenza di Lou ha una storia ed un passato da raccontare, ma non gli serve più per orientarsi nella Los Angeles di oggi, anzi lo fa sembrare un vecchio polveroso reperto.

Nelle due scene in cui Roman si reca nella sede dell’associazione per i diritti civili è evidente la distanza tra la sua competenza, il suo idealismo e la portata delle battaglie combattute negli anni ’60 e ’70 ed il velleitarismo un po’ annoiato dei volontari di oggi, persi dietro una correttezza politica, che non ha nulla a che vedere con i diritti civili e il femminismo.

Sul versante professionale, se Roman è una sorta di buffo rain man, capace di citare a memoria articoli e sentenze, tanto efficiente nella ricerca, quando inadatto a confrontarsi con gli altri soggetti del processo, questo non lo ha mai distratto dal grande obiettivo della sua carriera, quello cioè di riformare, attraverso una grande class action, la giustizia penale, rifondandola sulla dignità dell’imputato, eliminando mercanteggiamenti, squilibri e rapporti di forza, per ritornare allo spirito più vero del diritto penale.

Per farlo ha sempre lavorato nell’ombra di William Henry Jackson, rimanendo alla fine solo, con l’angoscia di non esserci riuscito.

Il film di Gilroy consente inoltre a Denzel Washington di aggiungere un altro capitolo fondamentale alla sua carriera, segnata, fin dall’inizio, dal tentativo di restituire dignità e importanza all’identità afroamericana, alle sue battaglie, alla sua storia politica e culturale: dal soldato di colore di Glory al pugile Rubin Carter, passando per Malcolm X, il coach nero Herman Boone, il prof. Tolson dei Great Debaters, il Troy Maxon di Barriere e finanche il criminale Frank Lucas.

Roman J.Israel, con la sua pettinatura afro, i suoi grandi occhiali e gli abiti colorati è un altro personaggio esemplare, un altro nero battuto, ma non sconfitto. Un uomo nel cui idealismo ci si può riconoscere, nonostante la misantropia ed i modi bruschi.

Washington gli regala una delle sue interpretazioni più sentite, trascinanti. La leggenda vuole che per il ruolo, dopo 40 anni, si sia fatto addirittura togliere le capsule che nascondevano il diastema tra i due incisivi.

Roman è come una pentola a pressione, sempre sul punto di esplodere, sembra rinchiudere dentro un corpo ingobbito e sformato da vestiti troppo grandi e troppo lunghi, tutta la sua rabbia, il suo rancore.

Anche se il film di Gilroy segue coordinate non particolarmente originali e sembra un passo indietro rispetto alla sua lancinante opera d’esordio, non è difficile capire perchè, nonostante il limitato successo di critica e di pubblico del film, Washington abbia ottenuto riconoscimenti unanimi per il suo ruolo, sino alla sua ottava candidatura all’Oscar.

Roman J.Israel, Esq. è soprattutto un film suo, forse avrebbe potuto anche dirigerlo, tanto forte è l’identificazione tra autore e personaggio, tanto simbiotica sembra essere la condivisione di quel percorso, anche morale e ideologico.

Ancora inedito in Italia.

 

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