I don’t feel at home in this world anymore

I don’t feel at home in this world anymore **1/2

Opera prima dell’attore Macon Blair (Blue Ruin, Green Room), I don’t feel at home in this world anymore ha vinto a sorpresa l’ultimo Sundance Film Festival, per approdare quindi a Netflix, che l’ha lanciato sulla sua piattaforma online in tutti i paesi in cui è disponibile.

Il film è un curioso e bizzarro ritratto femminile, che ha l’ambizione di farsi racconto generazionale e affresco sociale di un’america sempre più solitaria e vuota, sempre più diffidente e violenta.

La protagonista è Ruth, una giovane infermiera che scopre di essere stata derubata del computer e dell’argenteria di famiglia: qualcuno si è introdotto in casa sua, ma la polizia non sembra prestare molta attenzione alla sua ansia.

I vicini di casa sono ancor meno interessati, ma Ruth nel suo giro, conosce lo strambo Tony, ancor più dissociato e isolato di lei, fanatico delle arti marziali e della musica metal.

Quando il programma di ricerca del suo pc le segnala che il laptop è distante solo pochi isolati, la polizia non le dà ascolto, ma assieme a Tony riesce a recuperarlo ed a sapere che il resto della refurtiva è probabilmente depositata presso un banco dei pegni…

Qui Ruth trova la sua argenteria e forse anche il presunto ladro, che scappa a bordo di un furgone con altri balordi.

Grazie alla targa, Ruth e Tony risalgono al proprietario del mezzo, che abita in una villa isolata, sul limitare del bosco…

Il film di Blair contiene in sè molte delle suggestioni del cinema indie americano, dalle atmosfere rarefatte, agli elementi surreali della storia, ad una recitazione minimalista, ma li innesta su una trama di genere che vorrebbe richiamare la violenza senza senso di Fargo.

I don’t feel at home in this world anymore, girato in Oregon, nei sobborghi di Portland, vuole fare i conti con un mondo che appare privo di qualsiasi significato per la protagonista: mentre lei continua ad occuparsi degli altri, per lavoro e per predisposizione personale, quello che accade attorno a lei finisce per isolarla sempre di più.

La polizia è indifferente e inefficiente, i vicini sono insensibili ad ogni solidarietà, persino i ladri si rivelano sbandati senza dignità e senza progetti: di fronte ad una realtà così deludente, quello che rimane è uno scheletro di famiglia, che Ruth ricostruisce con l’improbabile Tony. Il loro è l’incontro di due solitudini, forse è troppo poco, forse non durerà, ma è l’unico modo di condividere l’insensatezza del mondo.

Il film di Blair può lasciare disorientati, soprattutto perchè il minimalismo della prima parte si associa agli improvvisi scoppi di violenza della seconda. Ottime le interpretazioni di Elijah Wood, nei panni di Tony e soprattutto della neozelandese Melanie Lynskey in quelli di Ruth. E’ grazie alla sua empatia che il film evita di deragliare nel divertissement incoerente e camp come un qualsiasi Swiss Army Man.

L’attrice neozelandese aveva debuttato con Peter Jackson in Creature del cielo e Sospesi nel tempo, per poi lavorare quasi esclusivamente nelle serie tv e nel mondo indie, con piccole parti in Lettere da Iwo Jima, Tra le nuvole, The Informant!, American Life, Mosse vincenti, Noi siamo infinito.

Blair la reinventa protagonista, in un ruolo lontanissimo dal glamour hollywoodiano, che le regala un’inaspettata seconda possibilità.

 

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