Birdman or The unexpected virtue of ignorance ***
Il film di Alejandro Gonzales Inarritu che apre la 71° Mostra di Venezia è spiazzante e inconsueto.
Il regista messicano ci aveva abituato a strutture narrative complesse, a grandi drammi segnati dal destino e dall’incontro. Sin da Amores Perros e poi con 21 grammi, Babel e Biutiful, il suo cinema si era sempre più incupito, chiuso in tragedie personali e familiari, che finivano alla lunga per diventare semplicemente ricattatorie. Il distacco dal fidato sceneggiatore Guillermo Arriaga, sembrava aver tarpato le ali al suo cinema.
Birdman invece è una sorta di rinascita, per lui e per il suo protagonista, Michael Keaton: una commedia nerissima e surreale su un attore di Hollywood, Riggan Thomson, una volta famoso per l’interpretazione di un supereroe, deciso a dare una svolta alla sua carriera in declino, dirigendo e recitando a Broadwday un adattamento dal libro di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore.
Lo seguiamo nei camerini, durante le prove e le anteprime, nei suoi scontri con l’amico avvocato e agente, con la coprotagonista e amante, con la figlia in rehab che l’assiste nella produzione, con gli altri attori e con una temutissima critica del New York Times, da cui dipende non solo il successo della pièce, ma in fondo anche la carriera di Riggan.
Il film cerca di evitare i clichè sul mondo dorato e corrotto di Hollywood a confronto con la purezza idilliaca di Broadway e grazie alle scelte di Inarritu e dei suoi sceneggiatori, infonde elementi onirici o sovrannaturali, restando sapientemente addosso al protagonista, nel delirio che precede la prima.
La sceneggiatura sembra una screwball dei tempi d’oro con battute a raffica, sovrapposizioni di dialogo e timing perfetto: Inarritu guarda naturalmente ai classici, da Eva contro Eva sino al Cassavetes sommo de La sera della prima e riesce a mantenere un equilibrio invidiabile tra commedia e dramma.
Riggan inoltre sembra avere dei veri poteri telecinetici, sente la voce del suo personaggio, Birdman – che come una cattiva coscienza lo spinge a tornare ad essere il divo d’azione del passato – è tormentato dal senso di un imminente fallimento non solo professionale, ma anche personale. Sente attorno a sè la sfiducia ed il pregiudizio di New York per un divo passato di moda e vorrebbe poter volare via leggero sui tetti della città, come il suo personaggio di un tempo.
L’eterna sfida tra vera arte e spettacolo si incarna nei volti dei protagonisti, ognuno capace di dare spessore e verità al proprio personaggio, ma è il concetto di fama e di notorietà ad uscire scorticato, soprattutto nei duetti tra Riggan e la figlia.
Inarritu ha deciso di girare tutto il film come un unico piano sequenza alla maniera di Nodo alla gola, nascondendo sapientemente i tagli di montaggio. Il prodigioso Chivo Lubezki (The tree of life, Gravity) lo ha assistito magnificamente, progettando sapientemente le luci ed accompagnando con la sinuosità della sua steadycam i personaggi di Birdman.
Michael Keaton dopo gli anni d’oro con Burton ed i piccoli ruoli con Tarantino e Soderbergh si era un po’ perso in progetti di piccolo cabotaggio.
Con Birdman torna ad una centralità perduta, anche grazie al gustoso cortocircuito tra realtà e rappresentazione, che sembra dare sostanza all’intuizione di Inarritu.
Al suo fianco spiccano soprattutto il collega Edward Norton, tutto verità sulla scena e ipocrisia nella vita privata, e la figlia Emma Stone, un ritratto impietoso e inedito di una vita spesa all’ombra e nell’assenza di un genitore innamorato del proprio ego.
Il film, qui a Venezia, sembra essere piaciuto molto di più ai critici di lingua inglese che non ai colleghi europei, divertiti dallo humor che non risparmia nessuno, da Ryan Gosling a George Clooney e Farrah Fawcett.
Ma il lavoro di Inarritu è sincero e riuscito, un piccolo gioiello di scrittura, di regia e recitazione, anche se nella seconda parte il film gira un po’ a vuoto prima di trovare il suo epilogo surreale: forse le singole parti si impongono sul risultato complessivo, come spesso è successo anche in passato per i film del regista messicano, che qui però almeno dimostra di avere altre idee ed un altro tono rispetto alla cupa rassegnazione fatalista dei suoi film del passato.
Da segnalare la colonna sonora percussiva e ansiogena di Antonio Sanchez, batterista jazz tra i più raffinati e tecnici.
[…] Marco Albanese @ Stanze di Cinema [Italian] […]