Big Bad Wolves
Aharon Keshales, Navot Papushado
2013.
“Ed ecco che l’olfatto capta.
Intercetta l’odore ricercato. Ecco la traccia. Avverte la presenza della non-persona. A lui si legherà, perché entrambi sono niente, e cresceranno insieme, e il lupo Fenrir apprenderà dal non-umano, si riempirà, si gonfierà di liquami e tradimenti e orrori non suoi, scaturiti da quello zero che non è una persona, e l’odore di quella annusa nell’aria e dunque precipita.”
Frasi abusivamente estrapolate dall’incipit di una grande opera, Hitler di Giuseppe Genna. Scenario era l’Austria, 1897. Qui invece l’odore è del contrappasso, scenario è Israele, oggi, e il Fenrir si atomizza, molteplici non esseri ne ricevono. La terra dell’Agnello pullula di lupi.
Big Bad Wolves è premiato, premiatissimo in giro per il mondo. Spicca nel palmares il premio del pubblico al Fant-Asia di Montreal, l’avanguardia dell’immaginifico occidentale. Il regista sono due, e vi arrivano dopo Kalevet, operetta mediocre e dimenticabile, pluripremiata anch’essa, che attraverso il gioco del survival esplorava le traiettorie relazionali di un gruppo di agiati Israeli teens.
Coincidenza, o zeitgeist, fa sì che BBW venga distribuito in contemporanea con Prisoners di Denis Villeneuve e ne condivida alcune chiavi, l’orrore pedofilo della Bestia, il rapimento, il dolore, la giustizia privata, e alcuni mezzi di persuasione, il martello in primis. Si potrebbe dedurre che, crollato l’ultimo baluardo, entrambi raccontino dell’uomo solo, arroccato in cantina a compiere il gesto estremo di rivolta al contratto sociale, l’occhio per occhio che lascia il mondo cieco, invece non è così, qui si parla semplicemente di lupi senza interesse antropologico, con velleità didascaliche in simil Esopo o in simil Fedro.
Lupo è il pedofilo, certo, lupo è il reduce dal Libano, più che certo, lupo è il reazionario padre del reduce, certissimo, lupo è il poliziotto torturatore, probabile. Tuttavia, attorno a questo quadrilatero di pelo ispido e denti aguzzi, che pure potenzialmente poteva essere perfetto, va in scena una farsa, una inutile successione di gag e battute gratuite il cui effetto finale è estraniante, piuttosto che disturbante. Lodevole l’intento in nuce, quello di creare la dicotomia, il corto circuito tra tematiche orrorifiche per antonomasia e situazioni da commedia demenziale, ma i differenti linguaggi non giungono mai ad unità, ed un’unghia strappata con le pinze non fa urlare, come un arabo a cavallo munito di I-Phone non fa ridere. A nulla vale l’estremo tentativo di tarantinizzare l’opera, spendendo invano il nome del grande Quentin per accreditare BBW come il miglior thriller dell’anno, chè il Maestro tende ad essere troppo magnanimo per amore del cinema tutto.
Così, immagini come questa, tra le migliori viste negli ultimi anni fuori dal cinema d’Oriente:
si perdono nell’afasia di un racconto che non si dipana, non epiloga.
Si salva, non la vittima che è irrilevante, ma il reduce dal Libano, lupo tra i lupi, per mera somiglianza con il Lupo Moreno dei grandissimi Profugos.
Si salva la costruzione scenica dei titoli di testa.
Poca roba, stavolta il Fenrir è sconfitto. Ma tornerà, o se tornerà.
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