A cura di Fabio Radaelli
E’ difficile dimenticarsi di Cheyenne e sarà difficile per gli spettatori come per coloro che faranno cinema nei prossimi anni.
Una delle ragioni è da identificarsi nel fatto che Sean Penn riesce ad interpretare un ruolo difficile: bastava un niente per cadere nei cliché. E invece, complice la definizione chiara che Sorrentino ha del personaggio, ci troviamo di fronte ad una vera e propria icona.
Cheyenne rimane nella memoria dello spettatore per i suoi tick, veri e propri segni. Le tipologie sono le più disparate: di natura verbale (“qualcosa mi ha disturbato”), di natura paraverbale (quegli accenti e quella cadenza così marcati), di natura non verbale (il modo di soffiare sul ciuffo) e in più, come se non bastasse, a definire l’identità del personaggio c’è anche il trucco reiterato con una certa abilità, la protesi del trolley, la ripetitività dei luoghi frequentati (supermercato e centro commerciale).
Tutti questi segni rimandano ad altro. Un disturbo? Certamente. Depressione? Solitudine? Tristezza? C’è tutto questo. Ma se fosse solo questo Cheyenne non riuscirebbe ad aprire una sottile ferita nel cuore dello spettatore.
Pensateci bene: cosa c’entra un personaggio di questo tipo con la media delle nostre esistenze? Poco. Forse potremmo trovare qualche punto di contatto nell’abitudine di passare dal centro commerciale per un caffè o in quella prendere la pizza surgelata al supermercato.
Ma se questi sono -possibili- punti di contatto, sono molto di più le cose che ci allontanano dal protagonista del film.
In una sala di 200 posti quanti sono coloro che possono permettersi di non lavorare? Quanti vivono in una villa che sembra un castello, con un maestro di arti orientali disponibile per lezioni private? Quanti dispongono di una piscina da adire al gioco della pelota?
Insomma C. è un personaggio scomodo in un tempo in cui ci si fa il mazzo, in cui “il lavoro bisogna tenerselo stretto” e in cui “per arrivare alla fine del mese bisogna fare sacrifici e stringere la cinghia”.
Eppure qui sta lo sbaglio.
Cheyenne non è solo quello che appare: è lui stesso un segno appunto. Non fa niente, ma esattamente come non fa niente la gran parte delle persone che lavorano, anche spaccandosi la schiena.
L’unico risultato (a parte lo stipendio, beninteso) è passare il tempo, farlo scorrere, superare la quotidianità. Che per ottenerlo si lavori 9 ore al giorno in un cantiere o si stia fermi in un centro commerciale a fare le parole crociate non cambia nulla, in fondo.
Quando alla fine della giornata, nella nostra stanza, nel nostro letto ci si fermiamo a guardarci indietro facciamo fatica a distinguere quello che abbiamo fatto. Buona parte di noi arriverà a dire proprio come fa C. alla cameriera del bar in New Mexico che si arriva ad un punto in cui si passa dal voler far qualcosa nella vita a dire è andata così, senza sapere il perché.
E’ questo che ci accomuna a Cheyenne. Qualcuno ha delle idee precise, proprio come David Byrne, ma in fondo noi ci ritroviamo di più in C. che di idee precise non ne ha mai avute e che è andato avanti senza sapere nemmeno perché. Forse nemmeno è mai stato un uomo: non fuma e “solo i bambini non hanno mai provato a fumare”.
Tutto questo è meraviglia e raggiunge dritto il cuore dello spettatore. Poi però il film perde questa forza e sterza verso il road movie di formazione: Cheyenne suona una chitarra dopo trent’anni, spinto da un bambino, incontra personaggi più o meno simpatici e completa il suo viaggio raggiungendo l’obiettivo che era mancato al padre.
Finalmente ha un obiettivo e lo raggiunge, ma non mi ha convinto né l’obiettivo né il modo di raggiungerlo. Una volta fatto questo Cheyenne si sente più forte, vince la paura dell’aereo e torna a casa dove si taglia i capelli ed è pronto a vivere con degli obiettivi.
Forse per un attimo qualcuno si è pure aspettato che finisse a cantare sul palco degli MTV Music Awards, ma almeno questo ci è stato risparmiato.
Dal film sono rimasto un po’ deluso… mi aspettavo di più. Più che altro mi ha spiazzato lo scarto evidente che si crea tra ottima tecnica registica (virtuosistica a palla!) e una pochezza nei contenuti, c’è il sapore dell’accozzaglia, spesso pure citazionistica…