Cannes 2015. Carol

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Carol ****

Todd Haynes torna a Cannes dopo oltre quindici anni, per chiudere idealmente la sua trilogia, dedicata all’America austera e conformista degli anni ’50, quella di Viale del Tramonto, prima che il sorriso caldo di JFK la trasportasse nella modernità.

Carol è l’epilogo di una traccia, aperta magnificamente con Lontano dal paradiso e poi ritrovata nell’adattamento per la HBO di Mildred Pierce.

Prendendo spunto da un romanzo di Patricia Highsmith, Haynes racconta il lento bruciare della passione tra Carol, una ricca signora sposata, che vive in una grande villa nel New Jersey, e Therese, una giovane commessa di un grande magazzino newyorkese, che sogna di diventare fotografa.

Il film comincia dalla fine. Un uomo esce dalla stazione dei treni e si dirige nella grande hall del Ritz. Due donne, sedute ad un tavolo e inquadrate sullo sfondo, vengono interrotte. Si separano. Un lungo flashback ci racconta il loro primo incontro e tutto quello che verrà.

Le divide tutto: classe sociale, famiglia, origini. Ma le leggi del desiderio sembrano più forti.

Sono un trenino, acquistato per Rindy, la figlia di Carol, e dei guanti dimenticati in negozio ad accendere la miccia. Negli anni di Eisenhower e Nixon, dell’anticomunismo e del cinema classico, delle grandi auto e dei colori pastello le passioni bruciano però lentamente.

Le due donne cominciano a vedersi, prima a pranzo, poi a casa di Carol, che vive ormai separata di fatto dal marito Harge, che pure non si rassegna alla fine del loro matrimonio.

Quando per Natale, Carol e Therese decidono di partire in auto per un viaggio verso ovest, la situazione precipita.

Il film di Haynes è un melò rarefatto e struggente. La sceneggiatura di Phillys Nagy distilla le scene e i dialoghi sino all’essenza di una relazione amorosa, la fotografia miracolosa del grande Ed Lachman evita tutti i clichè dei film di quegli anni, preferendo un’illuminazione minimale e quasi tutta in interni, capace di valorizzare le tonalità rosse e gialle del decor e dei costumi meravigliosi di Sandy Powell.

La colonna sonora di Cartell Burwell, collaboratore fidato dei fratelli Coen, esalta la ricostruzione d’ambiente ed asseconda perfettamente le svolte narrative e gli affondi sentimentali, senza mai imporsi.

Haynes stesso si tiene a distanza, inquadra i suoi personaggi attraverso porte o finestrini, specchi o vetrate, fa opera di prezioso recadrage, quasi volesse rappresentare in maniera esplicita i confini soffocanti, imposti dalla società alle due donne, e la continua necessità di trovare uno spazio, anche fisico, alla loro passione.

Non c’è mai una nota stonata nel racconto di Carol, che si allontana dal modello di Douglas Sirk e William Wyler, ma non è privo di riferimenti al grande cinema di quegli anni, da Breve incontroViale del tramonto – rivisto sei volte ‘per capire la differenza tra quello che i personaggi dicono e quello che davvero pensano’.

La recitazione della Blanchett racchiude perfettamente in sè, così com’era già accaduto in The Aviator, l’immagine delle grandi dive di quegli anni, la Garbo su tutte.

Haynes sfrutta perfettamente le atmosfere noir e la costruzione del cinema classico, senza mai metterne in discussione l’efficacia, ma rovesciandone contemporaneamente il senso: se quello era lo strumento per l’affermazione dei tradizionali valori americani, in campo sociale, economico ed anche sessuale, in Carol diventa invece un mezzo per mettere in crisi quell’idea del mondo, mostrandone tutta l’ipocrisia e la violenza sotterranea.

Il percorso che il film racconta non è solo quello dell’innamoramento e della passione, ma anche quello della ricerca della propria identità, del proprio posto nel mondo, fuori dal mero contesto familiare, a cui le donne degli anni ’50 si sentivano spesso costrette.

Il processo di emancipazione non si ferma alla libertà sessuale, ma coinvolge anche le aspirazioni professionali, la propria autonomia di giudizio, la volontà stessa di affermare il proprio essere al mondo.

La ricchezza del film di Haynes sta proprio nella complessità del microcosmo che rappresenta, capace di parlare a tutti una lingua universale.

Se Rooney Mara non è piu’ una sorpresa, perfetta anche questa volta nel mantenere per tutto il film una costante vena di ambiguità nello sguardo, nei comportamenti, nei motivi, la Blanchett è davvero miracolosa, capace di uno spettro drammatico irraggiungibile quasi per chiunque. La sua voce profonda e calma, i suoi modi eleganti e distaccati, nascondono perfettamente una passione bruciante e proibita, una determinazione capace di travolgere ogni barriera.

Forse nell’ultima parte il film di Haynes paga il suo debito ad una visione della sessualità e dei rapporti sociali troppo moderna e consapevole, ma lo fa con tale eleganza e perfezione, che glielo perdoniamo volentieri.

Anche perchè Haynes utilizza ancora una volta le scrittura del cinema classico, ribaltandone l’assunto, in un corto circuito particolarmente fecondo: alla ricostituzione del nucleo familiare tradizionale, sostituisce il sacrificio delle apparenze e degli affetti.

E’ la legge del desiderio che alla fine si impone: quel campo e controcampo finale, cadenzato dal lento avvicinamento di Therese e dal sorriso impercettibile che accompagna lo sguardo in macchina di Carol, non si dimentica facilmente.

Un capolavoro. Da non perdere.

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