Una battaglia dopo l’altra

Una battaglia dopo l’altra ***1/2

“La libertà quando ce l’hai non la riconosci e quando la riconosci è volata via”

Il decimo film Paul Thomas Anderson, il più talentuoso tra i registi americani emersi nella stagione gloriosa degli anni ’90, è di nuovo ispirato ad un romanzo di Thomas Pynchon, Vineland, così come il precedente Vizio di forma, di cui costituisce una sorta di doppio ideale e speculare.

Se Vizio di forma era un film caldo e nostalgico, ambientato al crepuscolo del movimento hippie, quando le speranze e le illusioni di una generazione si scontravano con la recrudescenza della guerra del Vietnam, con la paranoia nixoniana e la repressione delle libertà più radicali, Anderson trasporta significativamente Una battaglia dopo l’altra dall’America reaganiana al ritmo rutilante e frammentato nostro secolo, mettendo i suoi antieroi di fronte a un Paese sempre più diviso, incattivito, ossessionato dalla razza e dalla purezza, incapace di ospitalità e tolleranza, attraversato da tensioni e violenze che ci riportano al clima plumbeo degli omicidi politici, della repressione del dissenso, di un Potere sempre più malvagio e impermeabile al cambiamento.

Anderson non ha paura di mettersi in un angolo, di scegliere una prospettiva di rifiuto radicale del sistema, mostrando soprattutto nella prima ora l’ombra lunga di un Paese ostile, corrotto, disumano.

Eppure se Vizio di formacome del resto anche Il petroliere e The Master i suoi lavori sullo spirito americano, sulla sua psicologia e i suoi traumisi chiudeva con l’accettazione della sconfitta, del tempo trascorso e dell’impossibilità di rimettere assieme i pezzi di una storia un tempo condivisa, Una battaglia dopo l’altra sembra invece suggerirci che qualcosa invece rimane, se non proprio una speranza, almeno il suo desiderio romantico: nonostante tutti gli errori, i tradimenti, la violenza, le vite sbandate e perdute, l’idea di battersi per un mondo diverso e più giusto non si estingue e si trasmette tra le generazioni. E la ricomposizione familiare degli affetti non è un riflusso nel privato, tutt’altro.

La guerra non è perduta, la battaglia continua.

I protagonisti di questa storia sono i French 75, un gruppo di attivisti radicali nell’America del nuovo secolo, quella dei muri al confine, delle gabbie in cui si stipano gli immigrati clandestini e in cui si brucia il sogno americano della seconda opportunità.

In un’azione spettacolare, il gruppo fa irruzione armato nel centro di detenzione di Otay Mesa, la sua leader sottomette il capitano Lockjaw e i suoi uomini, liberando trecento prigionieri inermi, tra cui donne e bambini.

“La violenza rivoluzionaria è l’unica arma” secondo Perfidia Beverly Hills, afroamericana inquieta, istrionicamente narcisista, innamorata di Ghetto Pat, l’artificiere della banda. Il loro è un sentimento letteralmente esplosivo, totalizzante, che vive del continuo rilancio adrenalinico dell’azione rivoluzionaria: i due piazzano ordigni su un traliccio della corrente e fanno l’amore aspettando la deflagrazione, progettano di far saltare un tribunale in orario di chiusura e mettono al mondo una bambina che chiamano Charlene.

Ma Perfidia si vede segretamente anche con Lockjaw al Primrose Hotel, dove conduce un gioco sadomaso che ribalta i ruoli di potere, che i due incarnano. Incinta di Charlene non rinuncia alla sua attività, ma quando nasce la bimba, è Pat a prendersene cura, cercando di convincere anche la madre a rallentare e cambiare vita. Inutilmente.

Durante l’assalto a una banca, Perfidia uccide una guardia di sicurezza, afroamericana come lei: le cose si mettono male. L’FBI e la polizia decidono di smantellare il gruppo e quando Perfidia viene catturata, chiede aiuto a Lockjaw che la fa entrare nel programma testimoni, a patto di tradire i suoi compagni.

Con i nomi di Bob e Willa Ferguson, Pat e la piccolissima Charlene riescono a fuggire prima a Denver quindi a Baktan Cross, in una casa isolata in mezzo alla natura.

Mentre Perfidia scappa dalla sua nuova esistenza sotto protezione e fa perdere le sue tracce in Messico, la vita continua.

Sedici anni dopo l’America non è cambiata molto. Willa frequenta la high school e i corsi di arti marziali dell’imperturbabile sensei Sergio St. Carlos, il padre Bob è uno stonato che passa le sue giornate in vestaglia a bere birra e fumare erba, con l’unico obiettivo di proteggere la ragazza.

Lockjaw è diventato colonnello, gestisce il campo di detenzione di Rio Duarte, ma sogna di entrare nel gruppo segreto dei potenti suprematisti bianchi del Club dei Pionieri del Natale. Nella sua vita però c’è l’ombra della relazione con Perfidia, che rischia di mandare all’aria i suoi desideri, macchiando la purezza del suo pedigree.

Lockjaw, con la scusa di una retata antidroga in una polleria a Baktan Cross, riprende la caccia ai sopravvissuti del French 75, arrivando sino a casa di Bob e Willa.

Ad aiutare Bob è Sergio St. Carlos che sotto il tatami gestisce segretamente una rete di aiuto agli immigrati messicani, mentre Willa fugge in un convento in mezzo al deserto, grazie a Deandra, una vecchia amica della madre.

Nel frattempo i Pionieri del Natale comprendono il gioco di Lockjaw e incaricano lo spietato killer Tim di “fare pulizia”.

Sensei Sergio St. Carlos: “You know what freedom is?”
Bob: “What?”
Sensei Sergio St. Carlos: “No fear. Just like Tom ‘fucking’ Cruise”.

Dopo aver rinunciato ad adattare l’impossibile complessità del troppo amato Vineland per lo schermo, Anderson ha scelto di isolare alcuni degli elementi del libro, provando a tracciare dei percorsi diversi. Una battaglia dopo l’altra è il risultato di questo lungo lavoro, che trova nel rapporto tra padre e figlia il suo centro emotivo e narrativo.

Nel libro ambientato nel 1984 il padre rivoluzionario occupa appena le prime pagine, per poi lasciare spazio alla fuga della figlia in cerca della madre, inghiottita anni prima dal programma di protezione testimoni e dalla fascinazione per un procuratore fascista, in un profluvio di continue deviazioni, flashback e sottotrame. Nel suo film Anderson sfronda il racconto originale, per concentrarsi su un elemento che nel romanzo appare forse marginale, ma che è sempre stato centrale nella riflessione del regista: per ancorare emotivamente il suo film al presente era necessario mettere al cuore di questa creatura cinematografica un rapporto autentico, universale, che superasse lo scontro tra i due gruppi militanti e radicali che muove l’azione.

Il rapporto è evidentemente quello che lega Charlene/Willa ai suoi genitori: al padre presente, spiantato, lontanissimo dall’uomo d’azione di un tempo, e alla madre assente, inghiottita dai suoi demoni, che non è morta e non è davvero la rivoluzionaria senza macchia dei racconti paterni.

E così un’altra famiglia spezzata è al centro del nuovo film di Anderson, come spesso è accaduto in passato, sostituita da altre solidarietà, altri legami che vengono in soccorso ai protagonisti quando tutto sembra perduto: la rete sopravvissuta dei French 75 e il gruppo guidato dal sensei Sergio St. Carlos non sono tanto diversi dalla famiglia allargata di Jack Horner come dal circolo dei fedelissimi di Lancaster Dodd o dal gruppo di adolescenti che ruota attorno a Alana Kane.

Sin da Hard Eight il rapporto traumatico con i propri padri, autentici e putativi, è stato uno degli elementi ricorrenti della poetica di Anderson: il tradimento, la riconciliazione, lo sfruttamento, il bisogno di essere perdonati o anche solo riconosciuti è quasi sempre stato osservato dalla prospettiva dei figli. Forse per la prima volta Una battaglia dopo l’altra sembra spostare il punto di vista, facendo del padre, incarnato da DiCaprio, il baricentro morale del film.

Anche per l’attore di tanti film di Scorsese è una sorta di punto di svolta: lo vediamo qui invecchiato, trasandato, paterno nel senso più pieno del termine, fragile, patetico e impaurito non tanto per se stesso, ma per la figlia adolescente. Eppure anche per lui vale implicitamente quanto Anderson sembra dirci sul suo cinema: invecchiare non significa necessariamente arrendersi.

I momenti puramente comici del film appartengono quasi tutti a lui, una sorta di Lebowski in sedicesimo. Ma basterebbe la scena del colloquio con l’insegnante della figlia, tra paranoia, protezione e cura, a raccontare la profondità contraddittoria e commovente della sua interpretazione.

L’America ritratta nel film è un Paese di vecchi, odiosi reperti della storia: suprematisti che si fanno chiamare Pionieri (Adventurers) come nel vecchio west, capitalisti e fascisti che attraversano corridoi sotterranei che sembrano usciti da un film di Pakula. Contro di loro il French 75, un manipolo di giovani ribelli di ogni età, non meno posseduti dalle loro ossessioni, che usano come parole d’ordine quelle di The Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott Heron.

Benicio Del Toro si ritaglia il piccolo ruolo del sensei, maestro nella vita come sul tatami, l’unico tra gli adulti che sembra prendere davvero a cuore la sua missione: la sua rete di protezione e assistenza dei clandestini è fatta di poche parole e di generosa disponibilità, senza individualismi e isterie, senza parole d’ordine e violenza.

Chase Infiniti è una bella scoperta per Anderson – qui al suo primo ruolo per il cinema, dopo la serie Presunto Innocente girata per Apple – in un ruolo fisico ed emotivamente impegnativo.

Ma su tutti c’è il colonnello razzista interpretato da Sean Penn, sedotto e abbandonato da una ribelle afroamericana, piccolo “impiegato del male” che cerca la scalata al potere oscuro dell’America, rivendicando una purezza di desideri, oltre che di nascita, che non possiede. Così privo di sense of humor, è la faccia brutale dell’America trumpiana, redneck coi muscoli gonfi, l’ossessione per il ciuffo di capelli e la maglietta troppo stretta. Il suo è davvero il personaggio tragico di questa storia, capace di risorgere dalle ceneri del titanico scontro con DiCaprio, solo per accorgersi che il suo sogno è un’illusione impossibile, almeno quanto la rivoluzione rivendicata dai French 75.

Emergono alcuni dei temi forti del cinema del regista di Magnolia: la solitudine di chi è ai margini del sistema, il peso spesso soverchiante del passato, il fardello del pentimento e dell’abbandono e la necessità del perdono.

Una battaglia dopo l’altra è un altro capitolo del suo racconto per immagini, fatto di personaggi dilaniati, marginali, battuti dalla vita, i cui sogni si sono infranti miseramente di fronte alla Storia o al Destino: i pionieri del porno della San Fernando Valley come gli ex bambini prodigio degli show televisivi, i giocatori di Las Vegas – non-luogo per eccellenza della cultura a stelle e strisce – come i reduci sedotti da religioni illusorie o i superstiti della Summer of Love.

Tutti figli di una società capitalista brutale e ossessiva, che non si fa scrupolo ad usarli e poi respingerli e di cui Anderson ha indagato le radici profonde nel suo capolavoro, Il petroliere.

Nella seconda parte della sua carriera quella cominciata appunto con l’adattamento del romanzo di Upton Sinclair, la dimensione politica ha spesso affiancato quella puramente narrativa, nel tentativo di restituire fino in fondo la complessità ideologica e psicologica dell’homo americanus.

Se ai suoi esordi, Anderson era parso voler ereditare il lascito ideale del cinema corale e politico di Robert Altman e la suprema abilità narrativa di Scorsese, con le sue sintesi musicali, le sue panoramiche a schiaffo, i suoi piani sequenza e suoi microcarrelli, a partire da Ubriaco d’Amore e poi con maggior decisione con il sensazionale Il petroliere, il suo cinema si è affrancato dal confronto con i maestri, trovando una strada personale per scrivere sullo schermo il suo grande romanzo americano.

In Una battaglia dopo l’altra l’idealismo anarchico del suo autore non cerca tanto l’indignazione o l’invettiva, ma la commozione e la condivisione sentimentale.

Il film è un’avventura picaresca di fughe e arresti, che si muove veloce grazie al montaggio sensazionale curato da Andy Jurgensen, che spinge costantemente la storia e i personaggi, senza mai concedergli una sosta in 162 minuti col fiato sul collo.

In particolare la lunga scena stradale finale sulla Texas Dip Highway, con le auto dei quattro protagonisti ad inseguirsi spesso inconsapevolmente su un percorso fatto di dossi e curve, inquadrate con un teleobiettivo che schiaccia e deforma, è un piccolo gioiello all’interno del film, per originalità delle soluzioni visive e intelligenza di scrittura d’azione.

Anderson ha girato in pellicola 35mm come usa fare di solito, questa volta nel formato VistaVision, in disuso dai primi anni ’60, che Brady Corbet ha tuttavia rilanciato con The Brutalist e che ora molti hanno abbracciato, da Lanthimos a Inarritu da Fennell a Gerwig.

Anche questa  volta la discutibile fotografia è curata da Michael Bauman, capo elettricista inglese di grande esperienza, attivo sin dalla metà degli anni ’90, promosso dal regista a direttore già per Licorice Pizza.

La colonna sonora di Johnny Greenwood è una sorta di poema sinfonico in cui si alternano motivi di poche note per singoli strumenti ogni volta diversi –  chitarre, pianoforti, archi, percussioni – accompagnando ogni immagine del film in modo ossessivo, nervoso, forse per spingerci nella paranoia e nel rumore di fondo in cui vivono i personaggi, amplificati proprio dallo score sonoro. I pezzi di Tom Petty e degli Steely Dan sono invece assolutamente perfetti nella transizione temporale e in chiusura.

Il film è spassoso e ironico, pieno di momenti nonsense e di personaggi improbabili: le interpretazioni sopra le righe di DiCaprio e Penn, contribuiscono a spingerlo verso i toni di una commedia nera, divertente e caotica. Alla fine Willa/Charlene se la caverà da sola, più forte di quanto il padre possa immaginare, ultima erede di una stirpe di donne ribelli.

Il testimone passa così ad una gioventù che continua a cercare un’altra America: a Bob/Pat non resta che accettare l’idea che crescere i propri figli può essere già l’inizio della sua piccola rivoluzione personale.

Da non perdere.

P.S. Il titolo del film fa riferimento ad un messaggio del 1969 dei The Weather Underground, il famigerato gruppo di attivisti radicali: “Da qui in poi, sarà una battaglia dopo l’altra, con i giovani bianchi che si uniscono alla lotta e si assumono i rischi necessari. Pig Amerika, fai attenzione. C’è un esercito che cresce nelle tue viscere e ti abbatterà.”

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