Venezia 2025. L’étranger

L’étranger ***

A François Ozon non manca il coraggio: riportare sullo schermo uno dei testi capitali del Novecento, così sfuggente, denso e stratificato è un’impresa su cui lo stesso Visconti era caduto sessant’anni fa.

Lo straniero di Albert Camus, pubblicato per la prima volta nel 1942 per Gallimard, ritorna così in un nuovo adattamento curato dallo stesso Ozon che immerge in un sensazionale bianco e nero espressionista firmato da Manu Dacosse la storia dell’impiegato Meursault, nell’Algeri occupata dai francesi.

Un telegramma lo avvisa della morte della madre, ricoverata in un ospizio. Meursault prende due giorni di permesso per assistere alle esequie, ma appare completamente distaccato, indifferente agli eventi della vita.

Non piange la donna, si rifiuta di vedere la salma, fuma sulla sua bara. Il giorno dopo ritrova una giovane collega dattilografa, passa con lei una giornata al mare, poi la porta a cinema a vedere un film di Pagnol con Fernandel e infine nella sua stanza.

Con lei intreccia una relazione esclusivamente fisica. Quando Marie gli chiede di sposarla, accetta volentieri, chiarendo che anche l’alternativa sarebbe stata perfettamente accettabile, per lui.

Il vicino di casa Raymond è un ruffiano a cui il fratello di una delle sue ragazze arabe ha giurato vendetta.

Dopo aver subito nuove minacce in spiaggia è Meursault a freddare con cinque colpi di pistola il giovane indigeno, apparentemente senza alcun motivo personale.

La seconda parte, nel romanzo e nel film, è dedicata al processo a Meursault in cui quello che conta veramente è la sua predisposizione caratteriale, la sua indifferenza alla morte, il suo rifiuto di ogni pentimento, la sua incapacità di difendersi da accuse per le quali il suo comportamento al funerale della madre conta quanto l’omicidio di un uomo.

Meursault interpretato da Benjamin Voisin mantiene intatta la sua natura enigmatica, il suo rifiuto di ogni convenzione sociale. Marie gli rimprovera all’inizio di non essere capace di mentire, di essere trasparente nelle sue parole come nei suoi pensieri, eppure è proprio questa predisposizione laica alle cose del mondo che lo porterà alla condanna.

L’assurdità dei meccanismi giudiziari è solo l’ultima manifestazione di un conformismo che il protagonista rifiuta in modo radicale.

Apparentemente lontano dalle passioni del mondo, straniero a se stesso in un Paese in cui tutti i francesi sono in fondo stranieri, Meursault manifesta la sua angoscia solo di fronte alla morte, rompendo la sua maschera di apatia e rifiutando rabbiosamente il conforto di un prete.

Nella riaffermazione del suo ateismo, il protagonista rifiuta qualsiasi prospettiva consolatoria, rinnovando infine nella disperazione dell’attesa della condanna, l’assurdità della sua condizione.

Non c’è conforto possibile in un aldilà cristiano all’angoscia di un quotidiano incomprensibile e fasullo. Il desiderio assoluto di libertà è vanificato dal “divorzio tra l’uomo e la sua stessa vita”.

Ozon cerca di restituire sullo schermo la complessità inattuale, profonda, inafferrabile del lavoro di Camus, costruendo nel rapporto tra Meursault/Voisin e gli altri personaggi della sua storia una dimensione autentica, capace di illuminare a poco a poco il mistero delle sue scelte.

Da raffinato indagatore del melò, il regista cerca di individuare nel carattere indecifrabile del suo protagonista, le tracce di un sentimento, di un dolore, di una noia di vivere, che rimane tuttavia senza risposte.

Sotto il profilo formale, il lavoro di Ozon è sontuoso, di una bellezza abbacinante nella costruzione e nella messa in scena. I continui tagli di luce, i giochi d’ombra, l’uso stesso del pieno sole in senso drammatico è magistrale e richiama il cinema degli anni trenta e quaranta, coevo al romanzo, fin dai titoli di testa e dalla cartina disegnata che individua la Algeri del film. 

Non ci sono parole d’amore in questo film, non alla madre a cui Meursault non aveva più nulla da dire, non al vicino Salamano che ha perso il suo adorato cane e neppure a Marie, desiderata fisicamente e forse rimpianta solo alla fine.

La condanna non è certo per il crimine compiuto – “Non sarai né il primo né l’ultimo ad aver ucciso un arabo” – ma per i tratti del suo carattere, che il processo lascia emergere, dipingendo un ritratto umano troppo divergente rispetto alle consuetudini come figlio, amante, amico.

Nell’apatia di Meursault c’è anche l’immagine perturbante di un secolo che nasconde senza riuscirci il suo orrore e la sua colpa.

Il film è un tentativo generoso, in gran parte riuscito, che tuttavia suggerisce soprattutto la lettura o la rilettura di Camus e non esaurisce, per una volta, la densità del testo.

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