Un semplice incidente

Un semplice incidente ***1/2

Assistente di Kiarostami prima di debuttare con Il palloncino bianco trent’anni fa, vincendo la Caméra d’Or proprio a Cannes, Jafar Panahi torna per la seconda volta in concorso a distanza di sette anni da Tre volti, con il suo nuovo lungometraggio Un simple accident.

Più volte arrestato e imprigionato dal regime iraniano nel corso di questi anni, ha continuato a fare cinema anche clandestinamente, a raccontare il suo Paese, spesso schiacciato dal peso della tradizione, usando sovente la mise en abyme del fare film, come strumento per scardinare la realtà.

Nel frattempo il regime ha revocato le sentenze che gli impedivano di viaggiare e di girare nuovi film, anche se il suo modo di lavorare è rimasto del tutto peculiare, con le riprese in segreto, la troupe ridotta al minimo e un cast molto limitato di non professionisti.

In questo suo ultimo lavoro il tema dei prigionieri politici ritorna centrale, in un film che resta per lunghi tratti imprevedibilmente leggero, pieno di umorismo e umanità, quasi si trattasse di una impossibile commedia.

Il film comincia come molti dei suoi lavori nell’abitacolo di un’auto: un uomo e una donna, una coppia borghese, apparentemente ordinaria, con una figlia piccola sul retro e un altro in arrivo a giorni.

Investono un cane, poi si fermano per un guasto all’auto in un’officina.

Qui la voce dell’uomo viene immediatamente riconosciuta da Vahid, come quella di Eqbal, detto Peg Leg, uno dei suoi torturatori nel periodo in cui era stato prigioniero politico, per aver semplicemente manifestato per condizioni migliori.

Vahid lo insegue col suo van, lo colpisce con la portiera e lo carica a bordo. Fuori città in uno spiazzo desertico gli scava una fossa. Poi di fronte ai dinieghi dell’uomo l’assale il dubbio che la voce l’abbia tradito.

Chiede così aiuto all’amico Salar, che lo indirizza alla fotografa Shiva, anche lei vittima di Peg Leg, l’aguzzino con una gamba sola.

Anche lei, interrotta mentre sta facendo un servizio per un matrimonio, non è sicura che sia lui: tutti i prigionieri sono bendati e l’identificazione è particolarmente difficile. Tra l’altro anche la sposa del servizio ha passato un periodo terribile nella stessa prigione e vuole vendicarsi.

Shiva decide di coinvolgere allora Hamid, per cinque anni rinchiuso nelle prigioni con Peg Leg.

Lui non ha alcun dubbio, la gamba di gommapiuma è quella che Peg Leg ha perso in Siria, l’altra ha le stesse ferite che riconosce al tatto.

I cinque, pur riluttanti, decidono allora di riportarlo alla fossa già scavata, per seppellirlo, quando improvvisamente squilla un telefono…

Il film di Panahi è uno dei più esplicitamente politici della sua lunga carriera. Prendendo di petto la questione della tortura, delle sofferenze fisiche e psicologiche dei prigionieri politici e del rapporto con i loro aguzzini, cerca un’impossibile riconciliazione morale.

Cosa è giusto fare, una volta che l’identificazione è certa? I cinque devono ottenere la vendetta che anelano? O forse c’è un’altra via, che passa dall’ammissione delle responsabilità personali e dal perdono?

Il film interpretato dal poeta Vahid Moshaberi e da attrici che non portano il velo, girato senza autorizzazioni, si avvicina per molti versi a Il seme del fico sacro per come presenta l’ordinarietà familiare dei funzionari del regime, ma poi se ne distacca scegliendo la prospettiva delle vittime, coinvolte tuttavia nella stessa ambiguità, costrette a sporcarsi le mani con l’idea della vendetta e della violenza.

Non tutto funziona a dovere e i momenti umoristici suonano un po’ sordi, ma conta il coraggio, la determinazione senza paura di un regista che ha sempre pagato di persona un prezzo altissimo per il cinema.

Il film è nato anche dalle testimonianze raccolte da Panahi durante i suoi periodi di prigionia: il valore testimoniale si fonde all’ambiguità ideologica quando si impone una scelta che nessuno riesce davvero a compiere.

Il peregrinare dei cinque, fin dalla formazione progressiva di questo gruppo eterogeneo di vittime è improvvisato, episodico, persino comico in certi momenti. Qualcuno evoca Beckett, perché in fondo la loro è un’attesa surreale. Le vittime di questa storia sono vendicatori senza vocazione, senza un piano: si trovano di fronte al proprio aguzzino, ma non sanno bene come comportarsi. Li assale il dubbio, così come il desiderio di interrompere la spirale della violenza.

La scelta compiuta alla fine da Vahid e Shiva è l’unica possibile. Ma a che prezzo?

La risposta ce la dà Panahi, con un finale terrificante, sospeso, non riconciliato e che ci precipita di nuovo nell’incubo, mentre un brivido freddo scorre lungo la schiena di Vahid.

Un finale perfetto, potente, che usa solo il sonoro per dirci tutto il male del mondo.

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