Eddington

Eddington *1/2

Beau ha paura, lo sappiamo. Ari Aster ha paura. E anche Joe Cross non se la passa bene.

E’ lo sceriffo di Eddington, New Mexico da ormai 7 anni. Siamo nel maggio del 2020, in piena prima ondata di COVID.

Comincia ad essere obbligatorio portare le mascherine per strada e nei negozi, ma Joe Cross nella sua piccola città ha idee diverse e diventa l’alfiere dei “libertari”, spalleggiato da una moglie che passa le sue giornate a letto senza farsi toccare per un misterioso trauma del passato e da una suocera che raccoglie le più assurde teorie complottiste del web.

Il sindaco del paese, il latino Ted Garcia, è invece in odore di vago progressismo, usa sempre correttamente una ffp2, mantiene il distanziamento sociale e vive col figlio da solo, dopo che la moglie l’ha abbandonato. Ted è in cerca di riconferma elettorale, spalleggiato da un potente lobbista che vuole costruire a Eddington un enorme data center per la prossima A.I..

I due non potranno che scontrarsi fin dall’inizio, nel bar gestito da Ted e poi ancora in campagna elettorale, quando Joe decide di candidarsi, accusando falsamente l’altro delle peggiori nefandezze, personali e pubbliche.

Nel frattempo anche a Eddington si sentono gli echi della morte di George Floyd, di Black Lives Matter e della risposta del suprematismo bianco: i giovani si mobilitano e il vicesceriffo Michael, afroamericano, si trova dalla parte sbagliata della legge.

E così una banale e feroce vendetta privata diventa lo sfondo di un’ascesa politica inarrestabile.

Il nuovo film di Ari Aster comincia come una commedia iperrealista sull’America trumpiana, colta nel momento in cui la pandemia coagula tutti i peggiori istinti della nazione, liberando forze oscure e stupidità letali. Dopo un’ora e mezza si trasforma tuttavia in qualcosa di completamente diverso: un thriller con cecchini, cadaveri brutalmente mutilati, terroristi ed eroi del più truce true crime formato social.

Il regista del pregevolissimo Hereditary, affiancato dalla A24, abbandona del tutto l’horror, il suo genere di riferimento, e immaginandosi forse come il terzo dei fratelli Coen spinge l’acceleratore della satira e del sarcasmo fino in fondo, per trasformare la sua storia sgangherata in una parabola che vorrebbe raccontare il nostro contemporaneo in leggera differita e senza filtri. Solo che Aster non si è reso conto che la realtà ha ormai superato di molto ogni possibile finzione, precipitando gli Stati Uniti e mezzo Occidente in un incubo mediocre e autoritario, nutrito dalle peggiori fake news, dalla violenza verbale più incontenibile, dalla comunicazione istantanea e superficiale dei social e dalle assurdità politiche più reazionarie.

Gli Stati Uniti sono un Paese che da molti anni vive di estremizzazioni radicali, di parole d’ordine pronunciate fino a non significare più nulla, di divisioni identitarie non riconciliabili e di politiche culturali così incomprensibili da suscitare reazioni altrettanto violente.

Eddington vorrebbe farsene interprete, mostrando la confusione più totale, la stupidità più devastante, l’idiozia nutrita dalla cultura delle armi che ci riporta sempre al vecchio west dei pionieri, in cui l’unica legge che conta è quella del più forte o del meglio armato.

Aster però cade nell’errore di tanti e cercando di descrivere questo impero in rovina non si accorge di essere solo parte della stessa tragica e inconsapevole deriva culturale.

Il regista sembra sempre certo delle sue buone ragioni e della sua superiorità morale, cercando di spiegarci il senso della vita con lo stesso atteggiamento paternalistico di tanto cinema americano recente, come se dovessimo aspettare Aster per cercare di capire davvero l’America profonda e le sue velleità.

Ma forse Eddington vuole solo parlare al suo pubblico di riferimento, quello americano, e lo irride, gli fa il verso. Non credo che anche questa scelta sia davvero efficace, perché azzerando ogni livello e ogni lettura, costruendo un racconto senza filtri e senza chiavi interpretative, tutto in your face e sostituendo alle idee e alla riflessione critica il sarcasmo compiaciuto di un quindicenne, il risultato che ottiene è davvero mediocre e sconclusionato, simile in tutto al suo sceriffo ignorante e confuso.

Il suo mondo non è meno caotico e incomprensibile di quello attraversato in pigiama da Beau e il fatto che anche Joe Cross abbia il volto di Joaquin Phoenix racconta quanto i due film siano una sorta di dittico ideale, il primo più dolorosamente autobiografico, il secondo più esplicitamente predicatorio.

Inutile dire che il film è tutto costruito su di lui e che gli altri grandi nomi coinvolti, Pedro Pascal, Emma Stone, Austin Butler, sono poco più che comparse che affollano i suoi pensieri più neri.

Aster poi mette tutto nello stesso calderone, Antifa e Klan, Black Lives Matter e teorici del complotto, profeti religiosi, fascisti e woke, le cui posizioni sembrano radicalizzarsi ancora di più, coagulate dalla rabbia indotta dalla pandemia, senza lasciare spazio per l’umanità, l’intelligenza o la comprensione reale.

L’America di Aster diventa così solo uno spazio nel deserto in cui si affrontano tribù che parlano lingue diverse, di fronte all’occhio cinico e compiaciuto del suo interprete.

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