Berlinguer – La grande ambizione **
Dopo le 15 candidature ai David di Donatello, recuperiamo il film di Andrea Segre, veneziano quasi cinquantenne, raffinato documentarista, studioso, capace di interessanti escursioni nel cinema narrativo sin dall’esordio con Io sono Li.
Berlinguer – La grande ambizione è il suo quinto lungometraggio, scritto come di consueto con Marco Pettenello, a lungo collaboratore di Mazzacurati, Di Gregorio oltre che sceneggiatore de La chimera con Alice Rohrwacher.
I due autori si concentrano su un periodo preciso, il quinquennio che va dall'”incidente” a Sofia del 1973 al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro, che chiude definitivamente la stagione dell’avvicinamento al governo del più grande partito comunista d’occidente.
In quel quinquennio, Berlinguer elabora progressivamente l’idea del compromesso storico tra le forze popolari e antifasciste, comprendendo come i risultati elettoralmente sempre più significativi del suo partito non fossero da solo sufficienti a giustificare un governo socialista in un Paese chiave nello scacchiere internazionale, ancora rigidamente diviso in blocchi e sfere d’influenza.
La caduta di Allende in Cile, con il colpo di stato militare e l’ombra dei servizi americani è un monito chiaro a cercare una strada diversa all’eurocomunismo.
Berlinguer stesso si sente sempre più estraneo alle logiche d’apparato del comunismo sovietico e i suoi viaggi oltre la cortina di ferro assumono toni sempre più sinistri.
Nel frattempo sul fronte interno, la crisi economica e sociale e l’immobilismo democristiano, battuto anche nella battaglia civile sul divorzio, trova sfogo nei movimenti studenteschi e operai sempre più radicali, fino all’emersione del terrorismo.
Il sequestro Moro, alla vigilia del giuramento del nuovo governo Andreotti appoggiato dal PCI, segna la fine di ogni illusione e il ripiegamento di Berlinguer e del partito verso un nuovo lungo e inesorabile periodo di marginalità politica negli anni ’80.
Il lavoro di Andrea Segre si muove secondo un doppio binario, alternando la ricostruzione piuttosto pedante e non particolarmente ispirata dell’uomo politico e del padre di famiglia bonario – “il grigio funzionario di partito” – , costantemente preda di pensieri troppo grandi, con una dimensione documentaristica che attraverso il recupero delle immagini d’archivio mostra invece la vivacità contraddittoria di quegli anni, il fermento, l’elettricità delle manifestazioni, delle Feste dell’Unità, le strade vuote per l’austerità, i comizi d’amore di pasoliniana memoria per il divorzio.
Insomma se il politico interpretato da Germano non lascia spazio a grandi riflessioni, il ritratto sociologicamente prezioso dell’Italia degli anni ’70 è invece indovinatissimo.
Peccato che le due parti dialoghino a fatica e nonostante la grande esperienza di Segre e le immagini di repertorio non aiutino davvero a chiarire le scelte pubbliche e private dell’uomo e del politico Berlinguer.
Particolarmente reticente poi è il passaggio finale con Moro, a lungo cercato in segreto nelle notti capitoline, per costruire quel patto che allargasse il perimetro della democrazia italiana e poi lasciato nelle mani delle BR senza quasi rimpianti, senza comprendere che la morte dello statista cattolico avrebbe rappresentato anche la propria fine politica e avrebbe rinviato di quasi vent’anni l’ingresso di comunisti e post-comunisti a Palazzo Chigi.
Nel vedere all’opera la segreteria del PCI viene nostalgia del rigore e dell’audacia con cui Marco Bellocchio ha ritratto quella democristiana nel suo memorabile e coevo Esterno notte, quasi un controcanto di questo Berlinguer – La grande ambizione, condotto tuttavia con chiarezza e forza illuminanti, rispetto all’opacità del lavoro di Segre a cui non giova un Elio Germano caricaturale, mai davvero a suo agio e incapace di restituire la profondità arrochita dal fumo della parola del segretario.
Il film sembra così un bigino che cerca di far intuire la complessità e la profondità del pensiero di un leader amatissimo e popolare, molto al di là del suo consenso politico.
Solo che dal punto di vista cinematografico questa scelta diventa assai poco efficace, mostrando continuamente un uomo sentenzioso, isolato anche in mezzo agli altri, intento a scrivere o a parlare.
Isolando poi un preciso arco temporale, Segre fa di Berlinguer solo l’uomo del compromesso storico, evitando di mostrare come questa scelta gli abbia alienato progressivamente il favore dei più giovani, della sinistra extraparlamentare – dal gruppo del Manifesto in giù – fino al Movimento studentesco e alle forme più vivaci e creative della sinistra: in una società che stava cambiando profondamente, il suo PCI non è riuscito davvero ad intercettare e rappresentare il consenso. Questa difficoltà esplode poi in modo palese con la celebre manifestazione dei quarantamila di Torino, con cui si chiude un’intera stagione politica il 14 ottobre 1980.
Il film, come detto, lascia tutto questo alle immagini d’archivio, evitando di mostrare fino in fondo il fallimento – non personale, ma politico – della strategia berlingueriana e la sua incapacità di uscire da quel paradigma, affrontando con strumenti nuovi le sfide degli anni ’80.
La stessa dimensione collegiale del dibattito interno alle diverse anime del PCI viene semplificata con personaggi che appaiono sullo schermo per poche inquadrature con i nomi e cognomi in sovrimpressione a indicarcene l’identità, in uno sforzo didascalico che tuttavia è testimone solo di una scrittura irrisolta.
Certamente la scelta di Segre e di Pettenello rappresentava insidie non indifferenti dal punto di vista narrativo, storiografico e politico.
Luciana Castellina ha detto che vedendo il film è difficile immaginare perché un terzo degli italiani votava per Berlinguer in quegli anni.
Allo stesso tempo, non si può lasciare tutto il peso della ricostruzione solo sulle spalle di Segre e Pettenello. I due autori hanno scelto un punto di vista molto limitato e paradossalmente già molto indagato dal cinema di questi anni, evitando di prendere davvero una posizione, come ad esempio ha fatto Francesco Piccolo nel suo celebre Il desiderio di essere come tutti.
Pietro Bianchi nel suo illuminante pezzo su Cineforum ha scritto in proposito: “E se il pensiero e la visione di Berlinguer non fossero tanto quelle di un visionario troppo avanti sui tempi (già oltre il duopolio PCI-DC, secondo la vulgata), ma espressione dell’ultimo esponente di una tradizione comunista del PCI la cui crisi era ormai irreversibile? E se quella di Berlinguer fosse un’elegia invece che una grande ambizione?”
Sarebbe stato interessante vedere anche Berlinguer ai cancelli della Fiat durante il durissimo sciopero del 1980, il terremoto dell’Irpinia, i primi governi laici, la questione morale, i fischi dei socialisti al congresso del Psi nel maggio 1984, pochi mesi prima della morte.
Invece tutto questo non c’è. Sarà per un’altra volta.
