Dostoevskij: l’estetizzazione della morte in una serie disturbante, dal sapore cinematografico

Dostoevskij **1/2

Enzo Vitello (Filippo Timi) cerca la morte e cerca un serial killer, soprannominato Dostoevskij per la sua abitudine di lasciare lunghe lettere accanto al corpo delle vittime. In questi scritti il Killer propone una visione del mondo desolante e desolata, senza margini di speranza, che tocca il detective nel profondo, perché da diversi punti di vista gli appare simile alla sua. La ricerca di Dostoevskji, per lungo tempo infruttuosa, sembra l’unica cosa a tenere Enzo in vita, a parte il travagliato rapporto con la figlia Ambra (Carlotta Gamba) e l’amicizia, sempre più compromessa, con Antonio (Federico Vanni), il suo Capo. Quando arriva un nuovo collega, il rampante e determinato Fabio Buonocore (Gabriel Montesi) e il Capo  tradisce la sua fiducia, decidendo di rivelare notizie riservate sull’indagine alla stampa, il mondo investigativo di Enzo si sgretola, portandolo fin sulla soglia del precipizio. Il fatto che la figlia non voglia più vederlo gli dà la spinta decisiva per cadere in una dinamica autodistruttiva in cui i confini tra lui e il killer, tra l’indagine e la vita, diventano estremamente labili.

Dostoevskij è una serie dal forte profilo autoriale: ideata, scritta e diretta dai F.lli D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza, Favolacce) si presenta come un testo compatto in sei episodi, con una chiara identità visiva e di contenuto. I riferimenti da cui hanno tratto ispirazione gli autori sono molteplici, ma a livello seriale è immediato pensare alla prima stagione di True Detective (2014), a cui rimanda soprattutto la desolata ambientazione in un non luogo senza confini definiti, in cui l’uomo non appare integrato nella natura, ma piuttosto un corpo estraneo, portatore di una violenza che manifesta una drammatica incompletezza, a livello architettonico come a livello esistenziale. I quartieri, le strade, le case sono desolati, abbandonati, senza alcuna prospettiva, l’equivalente italico dei paesaggi della Louisiana.

Le location scelte per filmare la serie, tra Tivoli, Ardea e Guidonia sono a tutti gli effetti un personaggio, per molti aspetti un contrappunto decisivo di Enzo e di Dostoevskij: un mondo senza energia e senza prospettiva in cui la bellezza si può manifestare solo nel disfacimento e nell’annullamento. Entrambe le serie presentano una forte impronta  letteraria, ma se nello show creato da Pizzolatto essa si esprimeva soprattutto nei dialoghi, qui sono invece le lettere scritte dal serial killer a conferire alla narrazione questo sapore. Qualcuno l’ha definita “una serie epistolare” per rimarcare proprio l’importanza delle missive e il loro scandire i tempi del racconto, fino al drammatico, ultimo scritto di Dostoevskij. Nelle lettere del killer troviamo però una mera estetizzazione della morte, del tutto autoreferenziale, mentre in True Detective i dialoghi consentivano di scandagliare le profondità dell’anima umana. La parola aveva cioè un valore e non era un involucro vuoto, piegato ad una narcisistica proiezione dell’ego. Anche la coppia Enzo/Antonio potrebbe essere una riproposizione di quelle della serie americana, ma la loro è una potenzialità inespressa, abortita, fatta di silenzi e di incomprensioni più che di dialoghi. Non indagano insieme, si limitano a spostarsi, a condividere spazi e silenzi, ma non le scelte salienti dell’indagine, tanto è vero che proprio la decisione di Antonio di dare informazioni riservate alla stampa porta alla rottura definitiva tra i due.

Numerosi sono i riferimenti cinematografici, dalle opere horror del cinema italiano degli anni ’70 e dei primi ‘80 (Mario Bava, Lucio Fulci, Antonio Margheriti), al poliziesco all’italiana, in gergo poliziottesco (Carlo Lizzani, Enzo G. Castellari). Ogni inquadratura cerca un linguaggio visivo artistico e ricercato che rimanda direttamente al cinema colto (del resto non  a caso la serie è stata presentata prima nelle sale cinematografiche, dove Marco Albanese l’aveva vista e recensita in anteprima per Stanze di Cinema). Del resto la scelta di un linguaggio cinematografico è una delle caratteristiche delle produzioni televisive di qualità e come tale ad oggi rappresenta un’opzione ampiamente diffusa.

Estetizzazione della morte: mi sembra che questa categoria permetta di sintetizzare lo spirito di un’opera che intende spingersi al limite non per una qualche forma di necessità narrativa, ma piuttosto per una precisa scelta formale. Si può definire in questo modo l’indugiare sulle inquadrature di cadaveri e di ferite, fino ad un corpo mummificato, che tende a portare lo spettatore al limite della tollerabilità. L’estetica della morte richiede abilità tecnica non comune: vuol dire raccontarla facendo percepire la bellezza che c’è in una ferita, in un foro di proiettile, nel sangue, in un volto ricucito o nel percorso di una sonda attraverso il corpo umano. Il problema è che questa abilità finisce per schiacciare le componenti narrative, le tonalità emotive e la capacità di negoziazione del racconto: non nasce dal fluire della narrazione, ma viene cercata con insistenza e, in definitiva, con violenza.

Nei sei episodi assistiamo a un florilegio di rappresentazioni del male, che si manifesta soprattutto per sottrazione. Il buio contraddistingue la fotografia di Matteo Cocco, con colori desaturati e una luce livida in cui a volte si distinguono a malapena persone e cose; poi, improvvisa e accecante arriva una luce così violenta da dover chiudere gli occhi, così intensa da non poter essere assaporata. Al centro del racconto c’è non solo e non tanto Enzo, quanto piuttosto il male che accomuna tutti coloro che recitano la loro parte in questo grande spettacolo che è il mondo. Normalmente si pensa che in una serie che tratta di un serial killer il male sia concentrato nell’artefice dei delitti, nella sua vita, nei suoi traumi e invece qui il male è ampiamente diffuso e stratificato.

Se quello che emerge è la qualità (indiscutibile) dello sguardo, non devono passare in secondo piano le ottime interpretazioni degli attori, in primis Filippo Timi che conferisce corpo e sostanza al detective Vitello e che sorregge per gran parte l’intero arco narrativo.  Il suo investigatore appare inizialmente un classico anti-eroe contemporaneo, ma con il passare del tempo la sua figura si trasforma e nel finale assistiamo ad un antagonismo con il serial killer che non ha niente di eroico, anzi. La vicenda gli ha tolto ogni valore morale, portandolo allo stesso livello del killer. Anche Federico Vanni, nei panni del suo capo e Gabriel Montesi in quelli di Fabio ci sono sembrati credibili e capaci di dare concretezza ai rispettivi personaggi, nonostante una scrittura che a loro di spazio ne riserva davvero poco. Del resto lo spazio per la quotidianità, per la stanzialità, per il tranquillo fluire dell’esistere in questa serie è ridotto al minimo e quindi un personaggio come Antonio non ha una vera cittadinanza narrativa, se non come spalla di Enzo.

Dostoevskij è un’opera d’impatto, per molti versi un’esperienza di visione che resta dentro. La serie è però costruita in funzione di una volontà di rappresentazione della morte che finisce per cadere in una forma di estetizzazione, visivamente affascinante, ma povera di valori narrativi originali e profondi e di una reale capacità negoziale per lo spettatore.

TITOLO ORIGINALE:  DOSTOEVSKIJ

DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 55 minuti

NUMERO DEGLI EPISODI:  6

DISTRIBUZIONE STREAMING: Sky Atlantic

GENERE: Noir, Horror, Crime

CONSIGLIATO: a quanti vogliono provare un’esperienza di visione impegnativa e disturbante, ma esteticamente appagante, toccando con mano la bellezza del cinema dei F.lli D’Innocenzo e dei loro preziosi collaboratori.

SCONSIGLIATO: sarebbe banale sconsigliarla a quanti cercano una serie godibile e senza eccessivo impegno. Diciamo allora che l’opera è sconsigliata a quanti cercano una visione in cui la parte narrativa e quella visiva siano equilibrate e sorrette da un rimando reciproco alla necessità della rappresentazione.

VISIONI PARALLELE: la stratificazione mediatica del racconto ci porta al libro “Indizi” pubblicato nel 2024 dai tipi della Casa di Teseo. I Fratelli d’Innocenzo vi raccontano “Storie, storyboard e fotografie da Dostoevskij”. E’ un viaggio nella produzione della serie, ricco di spunti poietici e che quindi descrive anche il lavoro del regista, il processo creativo, il set cinematografico. Importante per conoscere meglio e più da vicino il mondo artistico di Fabio e Damiano, considerati dalla critica due dei registi italiani più interessanti degli ultimi anni.

UN’IMMAGINE: il finale in cui Antonio e Ambra si muovono lungo il corso di un fiumiciattolo di campagna, cercando, in modo peraltro improbabile data la massa d’acqua del rivo, il corpo di Antonio. Entrambi sembrano un poco più sereni rispetto al passato e la luce del sole illumina la scena senza accecare né disturbare lo spettatore. Il male non è vinto, infatti il killer continua a colpire, ma si è spostato più a nord: li ha insomma lasciati. Sembra essere questo l’unico barlume di pace per gli uomini, breve intervallo in cui il male si sposta altrove, in cui noi ci dimentichiamo di lui e lui si dimentica di noi.

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