Sedici anni dopo la morte di Massimo Decimo Meridio e dell’Imperatore Commodo nell’arena del Colosseo, Roma è governata da due imperatori gemelli Geta e Caracalla, mentre il sogno di Marco Aurelio di una Roma pacificata, restituita al Senato è lontanissimo.
In Numidia, il Generale Acacio combatte per sottomettere nuove popolazioni all’Impero, in un’ansia espansionista che non teme confini.
In Numidia vive però il giovane comandante Annone che, perduta in battaglia la moglie Arishat, viene fatto schiavo e venduto a Roma a Macrino, che l’ha scelto tra i suoi gladiatori.
Nella capitale tre giorni di giochi celebrano la vittoria di Acacio. Il generale è il nuovo marito di Lucilla, sorella di Commodo e figlia di Marco Aurelio. E’ lei a tenere viva la fiammella della speranza.
Nell’arena Annone si guadagna i favori del popolo, cercando un’impossibile vendetta su Acacio, senza comprendere di essere solo una pedina nelle mani di Macrino che, fra intrighi e congiure, vuole scalare rapidamente i gradini del Potere di Roma.
Dopo essere ritornato al mondo di Alien e poi a quello di Blade Runner, sia pure solo come produttore, Scott rimette le mani al film del 2000 che, tagliato a misura della retorica della colonna sonora onnipresente di Hans Zimmer e Lisa Gerrard, era diventato subito un classico d’avventura, soprattutto grazie alla modernità delle scene di battaglia e all’interpretazione sorniona e magnetica di Russell Crowe.
La sceneggiatura di David Franzoni, riscritta da John Logan, funzionava perfettamente nella sua costruzione drammatica, mostrando un eroe costretto nella polvere e desideroso di prendersi la sua rivincita sullo sfondo di un’eredità storica contesa e travisata. Il sincretismo etico e la spettacolarità maschia dell’ingaggio emotivo avevano fatto il resto, assieme ad un pugno di frasi memorabili che erano diventate immediatamente un tormentone anche in un’età senza i social, in cui internet era agli albori.
Il nuovo film cerca di ripetere la stessa struttura narrativa, con il solito mélange tra remake, reboot e sequel, che è diventato il linguaggio più conservatore per ogni franchise.
E allora Annone ripercorre in gran parte le orme di Massimo: prima l’allontanamento da Roma, quindi la schiavitù, il ritorno nell’arena, la congiura fallita, la libertà da conquistare nel sangue e infine il duello con il villain.
Solo che Ridley Scott ha capito che far morire tutti i protagonisti non era stata una grande scelta commerciale e questa volta si è tenuto uno dei due antagonisti, per nuove future avventure.
Più articolato invece il discorso su Roma, in cui gli intrighi, le mollezze imperiali, le ambiguità sessuali e i giochi di potere sono molto più centrali di un tempo, soprattutto perché ruotano attorno alla figura ambigua di Macrino, l’unico vero personaggio che abbia un’evoluzione significativa nel corso del film.
Il suo personaggio è quello che dissimula più a lungo le sue trame, la sua ascesa machiavellica: anche la sua è una vendetta, costruita nel tempo e covata in segreto.
La dimensione politica del film è ancor più vaga e indefinibile di quanto avvenga in uno Star Wars qualsiasi, i riferimenti storici appaiono risibili e non andrebbero approfonditi oltre, perché quello che conta è l’intrattenimento.
Tuttavia è evidente che Scott – come accadeva per il primo film – parla di Roma ma intende l’America contemporanea. Nel 2000 eravamo all’apogeo della pax americana, della crescita senza fine, dell’orizzonte senza ombre. E avevamo un eroe che credeva ancora pienamente possibile la realizzazione del sogno. Oggi non è così e se Annone non ha nessun motivo oltre alla vendetta personale, l’istanza politica è rappresentata da Macrino, uno schiavo liberato che non crede più a nulla, se non al Potere per il Potere e vuole vedere bruciare la città se non sarà lui a guidarla. Il sogno di Marco Aurelio – l’american dream – non esiste più. E anche se il nichismo di Macrino viene alla fine sconfitto la vittoria di Annone sembra un finale scritto, di comodo, da favola hollywoodiana. Neppure Scott sembra crederci davvero.
Paul Mescal nei panni di Annone mi è parso il frutto di un completo miscast: attore minimalista e sensibile, è costretto a far a botte a braccia nude e a pronunciare, come di consueto a mezza bocca, battute tremende che al più rievocano quelle originali.
Pedro Pascal è ormai un volto buono per tutte le stagioni e quasi si rimpiange che non passi il tempo coperto da un casco integrale come in The Mandalorian. Il suo Acacio sarebbe stato almeno più misterioso e minaccioso, mentre così è una figurina paciosa, funzionale solo all’arco narrativo di Annone.
Connie Nielsen riprende i panni di Lucilla, come se fosse passato appena un giorno, ma senza incidere davvero. E i due imperatori – Fred Hechinger e Joseph Quinn – sono davvero poco più di una macchietta queer.
A rubare costantemente la scena è quindi Denzel Washington: il suo Macrino giganteggia su tutti e si muove con l’aggressività tranquilla di un felino. L’attore sembra tornare ad incarnare i panni melliflui e ferini del poliziotto di Training Day.
Nonostante il ruolo glielo consenta, riesce anche a non andare costantemente in overacting, grazie anche ad una ritrovata asciuttezza fisica che rende il suo volto ancor più affilato, anche nei piani d’ascolto.
Osservarlo mentre domina senza fatica il senato romano così come gli altri interpreti del film è forse l’unica ragione plausibile per questo tardo e inutile sequel.
Peccato che la bulimia produttiva di Scott (diciannove film in ventiquattro anni proprio a partire da Il Gladiatore) e il suo gusto non impeccabile nella scelta dei copioni, l’abbia spinto a dissipare il suo talento in troppi progetti inutili e pleonastici.
Non sembra esserci nessuna urgenza narrativa dietro questa ennesima riscrittura, affidata peraltro al solito David Scarpa, già autore di un Napoleon odioso.

