Le parole di una lettera amorevole scritte da una donna, Erzsebet, sopravvissuta ai campi di sterminio, risuonano sullo schermo mentre dal buio e dalla confusione di una stiva emerge il marito, Lazlo. Siamo a Ellis Island poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Lazlo Toth è un architetto che ha studiato alla Bauhaus ed ha poi realizzato nella sua Ungheria edifici pubblici e privati celeberrimi. Nella terra delle opportunità è costretto a ricominciare da zero, con il cugino Attila, che vive il sogno americano con una giovane e bionda moglie shiksa, un nuovo nome e una nuova identità nei sobborghi di Philadelphia.
I due gestiscono un piccolo negozio di mobili su misura: quando vengono assunti da Harry, il figlio di un ricco imprenditore, per realizzare all’insaputa del genitore una nuova grande libreria per il suo studio, pensano di aver dato una svolta alla loro attività.
Scoperta l’idea, il sulfureo magnate Harrison Van Buren scaccia dalla sua villa Lazlo e Attila, che non vengono neppure pagati.
Costretto a rifugiarsi con l’amico afroamericano Gordon in un ricovero per senza tetto, per mesi Lazlo si guadagna da vivere come operaio in cantiere, fino a che un servizio di Look mostra all’America il suo lavoro: Van Buren lo invita di nuovo a casa sua e gli affida la costruzione di un enorme Community center, dedicato alla madre scomparsa.
Il progetto deve superare le resistenze della piccola comunità locale e la diffidenza di architetti e progettisti che non conoscono il lavoro rivoluzionario di Toth, le avanguardie mitteleuropee, il design razionalista e funzionalista.
Il mastodontico progetto in cemento con un altare in marmo bianco prevede un auditorium, un gymnasium, una sala conferenze e una cappella centrale.
Grazie all’avvocato ebreo di Van Buren, Lazlo riuscirà a far arrivare negli Stati Uniti anche la moglie Erzsebet, costretta in carrozzina a causa dell’osteoporosi da malnutrizione sviluppata a Dachau, e la nipote Zsofia, ormai adolescente.
Un disastroso incidente ferroviario interromperà il grande progetto una prima volta, ma i rapporti tra Lazlo e Harrison rimarranno oscuri e controversi per tutta la vita, come spesso accade tra artista e committente. Durante una visita a Carrara per scegliere il marmo necessario all’altare, la situazione precipita e la dipendenza di Lazlo dagli oppiacei lo rende vulnerabile alla violenza e alla sopraffazione del suo committente.
Il terzo film da regista dell’attore Brady Corbet dopo The Childhood of a Leader – L’infanzia di un capo e Vox Lux è un altra riflessione sul rapporto oscuro tra i traumi personali e collettivi e la creazione artistica.

Se nella sua opera prima si soffermava sulla formazione e sugli abusi di un tiranno nell’Europa del Novecento e nella seconda metteva in correlazione l’enormità di una strage scolastica con l’improvvisa ascesa di una star del pop, qui Corbet si confronta direttamente con l’eredità ideale e spirituale dell’Olocausto nella vita di chi è sopravvissuto.
Ma è il capitalismo americano a poter sanare i traumi provocati dal nazismo e dai totalitarismi europei? L’interrogativo è potente, attualissimo, ma il film non dà una risposta univoca.
Attraverso la malinconica rassegnazione di Lazlo, la ritrosia manifestare il suo talento, l’incapacità ad accettare i compromessi sul suo lavoro, Corbet cerca di farci entrare nella psiche lacerata del protagonista.
Solo l’oppio riesce a calmare i fantasmi di un passato che rimane sempre nell’oblio del non detto, nascosto nel profondo di un artista che solo dopo molti anni riuscirà a raccontare attraverso il suo lavoro il dolore della deportazione e l’anelito alla libertà.
Il film di Corbet, girato in pellicola e con il Vistavision degli anni ’50, si affida all’illuminazione naturalistica di Lol Crawley che non ha paura di immergere i suoi personaggi nel buio e nell’oscurità, privilegiando una dimensione intima.
Tuttavia lo sguardo di Corbet rimane spesso un passo indietro alle sue intenzioni. Il respiro del suo cinema non ha sempre la forza del kolossal che intende realizzare.
L’esistenza di Lazlo e Erzsebet è turbolenta, faticosa, per molti versi reticente, perché il dolore subito è letteralmente indicibile, se non attraverso la mediazione e la sublimazione della creazione artistica.
Diviso in un prologo, due capitoli e un epilogo con un intermezzo centrale di quindici minuti, The Brutalist rivela solo all’ultimo, in una coda ambientata alla Biennale d’architettura del 1980 il senso politico e intellettuale di un lavoro che abbiamo visto faticosamente nascere e svilupparsi nel corso della storia.
In un film di forza magmatica, che riscrive l’ossessione del suo autore per la cultura europea del Novecento e la sua formidabile e controversa eredità, non c’è spazio per minimalismi e nostalgie. Il racconto è grande, d’ambizione e durata smisurata, eppure lineare nel suo sviluppo narrativo.
Dei tre protagonisti principali, Adrien Brody sembra ricalcare in buona parte l’odissea del ritorno che già era al centro de Il pianista di Polanski: il suo fisico scavato, i suoi tratti emaciati portano su di sé tutta la sofferenza del mondo e la perdita di ogni illusione o felicità.
Felicity Jones, che entra in scena solo dopo l’intermezzo nei panni della moglie Erzsebet, ha espressioni diverse, che alternano determinazione e sorpresa, cura e frustrazione.
Quanto al Van Buren di Guy Pearce è la quintessenza del capitalista illuminato e rapace: ottimista, generoso, ma anche volubile, infantile, prepotente, abusivo. Un’interpretazione maiuscola.

A Zsofia, interpreta prima da Raffey Cassidy e poi da Ariane Labed, spetta il compito di aprire e chiudere il film, lasciandoci nel dubbio che la sua parte sia rimasta in gran parte sul pavimento della moviola.
Non tutto è perfettamente registrato, qualche episodio – soprattutto quello ambientato a Carrara – appare inutilmente didascalico, l’ultima parte avrebbe meritato più respiro e quando Van Buren esce di scena improvvisamente il film sembra perdere mordente, tuttavia il lavoro di Corbet resta una riflessione coraggiosa sul rapporto tra forma e funzione, tra cultura e creazione, tra peso della committenza e libertà d’artista.
“Nessuno è più schiavo di chi si crede libero senza esserlo“: la prigione di Lazlo è uno stato d’animo che sopravvive alla cattività.
Scritto con la moglie Mona Fastvold e a lungo rimandato nel corso della pandemia, The Brutalist è un film che sembra ad un certo punto voler chiudere ogni ambiguità, risolvendo nella personale La presenza del passato le domande che aveva sino a quel momento lasciato in sospeso. Il film respinge la retorica dei classici, fin dai titoli di testa, che scorrono per brevi quadri orizzontalmente.
L’opera a cui forse più si avvicina, non solo nel racconto di un certo spirito del capitalismo americano, ma anche di una parte significativa delle radici su cui si fonda la nazione, è Il petroliere di Paul Thomas Anderson. L’epopea dell’emigrazione diventa qui racconto singolare di sopravvivenza e successo: nel sincretismo americano, la cultura della Vecchia Europa e l’animo ebraico rinascono all’ombra della Statua della Libertà.
Per molti versi, The Brutalist dovrà confrontarsi anche con Megalopolis, un altro film sull’architettura, che sembra il suo esatto opposto: tanto rigoroso, cesellato e risolto il film di Corbet, quanto slabbrato, sfrangiato e imbarazzante nella sua vitalità quello di Coppola, che pure ha squarci visionari di grande generosità.
Eppure The Brutalist funziona benissimo anche su una scala più semplice, nella biografia tormentata di un sopravvissuto.
Da non perdere.
In Italia dal 6 febbraio 2025 per Universal.


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