Si chiude con un ritratto di Maria Callas l’ideale trilogia biografica di Larrain: tre donne, tre figure controverse, infelici, testimoni e protagoniste della Storia del Novecento, per molti versi eccezionali, nell’interpretazione del proprio ruolo pubblico e privato.
Anche questa volta tocca all’inglese Steven Knight (Spencer, Peaky Blinders, Locke) riscrivere il mondo di Maria Callas a partire dai frammenti della memoria, nel corso della sua ultima settimana di vita nella Parigi del 1977.
La fine è nota, debilitata dalla malattia, dall’insonnia e dall’abuso di medicinali e barbiturici, Maria Callas muore d’arresto cardiaco nella sua casa di Avenue George Mandel.
À rebours il film ci accompagna nei suoi ultimi giorni in cui l’ossessione per un possibile nuovo ritorno ai fasti perduti concorre con i fantasmi del passato, le incisioni perfette, la curiosità della stampa famelica, la riservatezza che il suo maggiordomo Ferruccio e la sua cameriera Bruna hanno cercato di mantenere sino all’ultimo.
L’ultima tournée con Giuseppe di Stefano, conclusasi trionfalmente in Giappone, era ormai lontana quasi tre anni. Dopo nella sua vita c’era stato posto solo per una lunga teoria di lutti: l’amato Aristotele Onassis, Pier Paolo Pasolini, quindi Luchino Visconti. Un intero universo sentimentale, affettivo e professionale l’aveva lasciata ultima testimone di un tempo e di una grandezza perduti.
Sulle note dell’Ave Maria dell’Otello di Verdi, scorrono le immagini dei trionfi di una carriera irripetibile: i teatri, i costumi, le arie, la fama, gli amori e i dolori.
Poi dopo questa mirabile sintesi visiva e musicale, si ritorna a Parigi, una settimana prima della fine.
Nella grande casa in cui l’unica cosa che continua a muoversi e sembra viva è un bellissimo pianoforte a coda, la Divina sopravvive al suo Mito, tra le visioni notturne di Ari, un’impossibile intervista con una troupe immaginaria, le visite del dottor Fontainebleu e gli appuntamenti con un pianista che sembrano far deflagrare ogni sua illusione.
Accanto a lei la dimessa Bruna prepara le sue meravigliose omelette, donandole false speranze, mentre Bruno continua a trascinare il piano da una stanza all’altra, l’accompagna sulla Mercedes ai suoi sempre più radi appuntamenti e si occupa della sua salute, cercando di limitarne gli abusi.
Attraverso la finzione dell’ultima intervista, il film ci riporta indietro nel tempo, all’Anna Bolena della Scala, all’incontro con Onassis e a quello con John Kennedy, fino all’inizio in Grecia, durante la guerra, quando la madre la faceva cantare per i soldati tedeschi.

Verità e menzogne, delusioni e successi sono un caleidoscopio che affolla la mente della protagonista.
Larrain usa sapientemente i materiali d’archivio, come ha sempre fatto in passato, alterando i formati, utilizzando il bianco e nero e le incisioni d’epoca, sfruttando ogni possibilità mimetica per immergere il suo film nella grana del tempo.
Il suo è sempre un discorso sulla narrazione, la sua capacità mitopoietica, sulla scelta dei punti di vista e sull’affidabilità dei narratori.
Rispetto alle altre due donne al centro della sua trilogia, Larrain racconta di aver avuto da sempre una sincera passione per la Callas, di cui conosce il repertorio e per cui prova un’evidente ammirazione.
Il suo film, concentrandosi soprattutto sulla fine, trasforma la soprano in uno dei suoi celebri personaggi tragici, in una evidente immedesimazione tra arte e vita, tra palcoscenico e realtà.
Anche questa volta siamo di fronte ad una donna sola di fronte all’enormità soverchiante della Storia e delle proprie responsabilità, idolatrata e spiata, imitata e invidiata, capace di costruire con il proprio talento e la propria determinazione un percorso lontano da ogni convenzione precedente, interpretando il proprio ruolo sul palcoscenico teatrale e su quello della vita come mai nessuno prima.
La Callas di Maria è una donna isolata dalla realtà esterna, lontana e in conflitto con i suoi affetti, chiusa in un simulacro familiare sui generis con i suoi domestici.
La fama è ambrosia senza cui non si può vivere e al tempo stesso condanna e tormento. Maria racconta in modo molto interessante come l’ossessione per il proprio talento finisca per essere divorante: la Callas è una cosa sola con la sua voce impareggiabile. Perduta quella non sembra esserci nient’altro che conti, mentre in realtà le sopravvive un essere umano, con altri sentimenti e altre passioni.
Larrain trova una misura encomiabile tra la forza impetuosa del melodramma che continua a ritornare nelle arie più celebri della soprano e il tentativo di restituire lo schermo la dimensione interiore, privata e terminale della sua esistenza.
Un ruolo non marginale spetta a Onassis, l’amore di una vita, che torna più volte nel corso del film in diversi flashback in bianco e nero, che raccontano il suo corteggiamento sfacciato, la sua conquista e poi l’ultimo incontro. Memorabile resta tuttavia la scena ambientata sul Christina O., quando l’armatore le suggerisce che le perone come lui brutte e ricchissime sono affascinanti per la vita elettrizzante che possono offrire più che per i loro denari: Ari mostra quindi alla cantante, nella sua camera da letto, una scultura antica di Ermes, il suo dio preferito, protettore dei navigatori, dei commercianti e dei ladri come lui, che aveva appunto commissionato il furto di quella testa da un Museo di Atene per il suo esclusivo piacere.
Persino nel finale, per l’ultima interpretazione della Divina, la scelta del regista è tutta antiretorica, soffermandosi intelligentemente su Ferruccio e Bruna per strada, fermi come altri ignari passanti, ad ascoltare la voce sublime e irripetibile che giunge dalle finestre spalancate.
Come accade anche in Spencer, un ruolo non marginale nel racconto è affidato a chi si è occupato di servire: cuochi, maggiordomi, dame. E’ una scelta in qualche modo “democratica”, che Knight ha deciso di rendere ancora più centrale in questa occasione.
L’alternanza dei nomi e dei cognomi nei titoli di questa trilogia, rimane piuttosto curiosa. Dopo Jackie, che ci accompagna a identificare il ruolo decisivo della moglie del Presidente nel preservare e tramandare la sua eredità politica e ideale, Spencer usa in modo significativo il cognome da nubile, per identificare soprattutto l’estraneità di Diana ai rituali di Corte.
Con Maria ritorniamo al nome proprio, perché questa volta il viaggio è ancora più personale e intimo, chiuso nel rimpianto di chi a 53 anni non sembrava avere più futuro davanti a sé, ma solo memorie su cui indugiare.
Commosso e complice, ma sempre a ciglio asciutto, Larrain sembra negare ogni eccesso, preferendo un tono malinconico, una dolcezza serena: quella che infonde il suo personaggio, che ha compreso e accettato l’avvicinarsi della fine.
Angelina Jolie è una Callas sorprendente, amante tradita e diva capace di vivere i suoi personaggi nel teatro della vita, in un continuo confronto con il proprio Mito, bisognosa dell’adulazione, ma non così fragile neppure nel momento dell’addio, fiera della propria storia: una tigre, come suggerisce nel corso film.
Jolie deve essersi identificata e immedesimata nel personaggio, mettendoci qualcosa di sè in questo ritratto decadente e orgoglioso: Larrain ha voluto che studiasse canto per sette mesi prima delle riprese, spingendola ad esibirsi in spazi sempre più grandi, sino alle riprese a La Scala.
Il film si apre sovente a momenti di puro musical come nella sequenza della Madama Butterfly con l’orchestra che suona sotto la pioggia o in quella del coro de “La zingarella” tratta dal Trovatore che occupa la Place du Trocadéro.
La fotografia dorata di Ed Lachman, ci restituisce una Parigi autunnale che è puro sogno, i costumi di Massimo Cantini Parrini sono di una bellezza inarrivabile non solo nella ricchezza degli abiti, delle pellicce, dei vestiti di scena, ma anche quando disegnano le semplici divise dei due fedeli collaboratori della Callas.
La ricostruzione decadente e lussuosa di Guy Hendrix Dyas del grande appartamento parigino della Diva contribuisce in modo determinante al suo ritratto, così come accadeva con la tenuta reale in Spencer, mentre il montaggio della giovanissima Sofía Subercaseaux, cilena ma newyorkese di adozione, alla seconda collaborazione con Larrain, è all’insegna della straordinaria fluidità delle immagini e del sonoro, con una capacità pienamente postmoderna di unire formati e materiali differenti, visivi e sonori, in modo mirabile.
Da non perdere.

