True Detective 4: Night Country **1/2
All’approssimarsi del periodo dell’anno senza luce solare, gli scienziati che lavorano presso il centro di ricerche Tsalal della cittadina mineraria di Ennis, a 150 miglia dal Circolo polare artico, vengono ritrovati in una surreale posa scultorea, immersi in un blocco di ghiaccio. I loro volti stravolti in grida disperate, gli occhi bruciati dal freddo e i timpani perforati ricordano i dannati alla deriva in un celebre quadro di Theodore Gericault, La zattera della medusa. Per risolvere il mistero della loro sorte gli investigatori devono capire cosa li abbia spinti ad uscire dalla stazione di ricerca, piegare accuratamente i vestiti e affrontare nudi il gelo della notte, andando di fatto incontro a una morte certa e dolorosissima. Sul caso indaga il capo della polizia investigativa locale, Liz Danvers (Jodie Foster), aiutata dal giovane Pete Prior (Finn Bennett). Il ragazzo, da poco sposato e con una bimba piccola, sacrifica al dovere la stabilità del suo matrimonio e il rapporto con il padre, anch’egli poliziotto agli ordini della Danvers, ma poco trasparente nei suoi rapporti con la società che gestisce la miniera locale. Sembra infatti strettamente connesso alla miniera anche questo caso, come quello, irrisolto, del brutale omicidio dell’attivista Annie K, su cui avevano lavorato anni prima la Danvers e la collega Evangeline Navarro (Kali Reis), una nativa Inupiaq Domenicana, determinata a raggiungere la verità. Quando si delinea un collegamento tra gli scienziati trovati congelati e l’omicidio di Annie K, si ricrea il tandem tra le due donne che si impegnano a far luce sul buio, non solo fisico, che avvolge la cittadina di Ennis.
La quarta stagione di True Detective è ricchissima di simboli, rimandi, richiami. E’ a tutti gli effetti un testo stratificato nel tempo e nello spazio. Un discorso approfondito meriterebbe la paletta cromatica, con la lotta senza tregua tra il bianco della neve e il nero della notte che per qualche minuto si placa negli interni delle abitazioni, dove predominano altri colori, come l’arancione, il verde e l’azzurro che si sposano con i momenti di sesso di Liz ed Evangeline, entrambe predominanti, anche se in modi diversi, nei confronti del rispettivo partner. Le case, avvolte nel buio, sono spesso decorate con luci colorate a riprova di un fragile tentativo di opporsi alla notte che sembra inghiottire tutto. Anche la scelta di singoli capi di abbigliamento risente di valori simbolici: ad esempio Danvers quando decide di far visita alla camera mortuaria dove le bare dei piccoli nati morti attendono condizioni climatiche più miti per la sepoltura, indossa una giacca bianca, colore della purezza e dell’innocenza. Rimandi alle culture ancestrali non sono mai mancati nelle precedenti stagioni: qui si identificano soprattutto con il simbolo della spirale che si trova sulle pietre così come sul corpo di Annie e di uno dei ricercatori congelati. Simbolo di eterno ritorno e di fecondità femminile, viene collegato dal racconto all’accesso alle grotte sotterranee che si snodano per chilometri sotto la superficie del terreno ghiacciato e che nascondono segreti di non facile comprensione. Anche l’orso, immagine ricorrente, è un simbolo che in Alaska e Siberia viene associato alla memoria e alla capacità di vedere “oltre”. Da questo punto di vista non è un caso che nel momento più oscuro delle indagini (ma anche della sua vita personale) appaia a Navarro senza un occhio.
Ci sono poi i richiami alle precedenti stagioni della serie (la figura di Travis Cohle, padre di Rustin e morto per leucemia o la citazione nell’ultimo episodio della frase “Time is like a flat circle”, il tempo è simile ad un cerchio piatto) e ad altre opere horror come The Thing o The Terror. Tutto ciò non rende necessariamente lo show più profondo o più sapido, perché questo avviene solo quando il richiamo, la citazione, i simboli riescono ad espandere il contenuto della storia e a portarlo su di un altro piano di significato. Quando questo non avviene, ovvero nella maggior parte dei casi, si crea solo accumulo, a volte perfino confusione, come nei riferimenti alle precedenti stagioni di True Detective.
Un discorso a parte merita l’ottima colonna sonora che, a partire dall’iconica sigla introduttiva, immerge lo spettatore in un mondo rarefatto ed etereo, fatto di sonorità acute e malinconiche. Ogni stagione della serie si è sempre caratterizzata per una sua ben precisa identità sonora, a cominciare dalla prima con la musica di The Handsome Family perfettamente tagliata sul personaggio di Rustin Cohle e sul paesaggio della Louisiana in cui erano ambientate le vicende dei protagonisti, per arrivare, passando da Leonard Cohen e Cassandra Wilson, a Billie Ellish e alla sua Bury a Friend. Dietro la supervisione musicale c’è Susan Jacobs (Big Little Lies) che non ha fatto rimpiangere T Bone Burnett, svolgendo un lavoro straordinario nel fondere la musica con il tono della narrazione, così come con le vicende dei singoli protagonisti. Le canzoni raccontano infatti i personaggi, ne espandono l’universo emotivo, li situano in uno spazio oscuro popolato da figure demoniache come la gazza di Magpie della folk band inglese The Unthanks, che ascoltiamo nel primo episodio, o da suoni ancestrali, come quelli di Song to the Siren di Tim Buckley.
L’ambientazione nel punto più a nord dell’Alaska (anche se le riprese sono avvenute in parte in Alaska e in parte in Islanda) trasmette davvero la sensazione di essere “alla fine del mondo” come recita il cartello all’ingresso della cittadina in cui si svolge la vicenda. Un luogo inospitale, con diversi giorni all’anno senza luce solare, in cui si vive per disperazione, per fuggire dal proprio passato o semplicemente perché ci sei nato e non sai dove altro andare. Questo tuttavia non indebolisce il rapporto tra uomo e territorio, ma anzi lo rafforza. I nativi dell’Alaska, i popoli Inupiat (o Inupiaq) che abitano 34 villaggi dal Mare di Bering al confine tra USA e Canada, sono legati a questa terra da un rapporto indissolubile che l’uomo bianco ha compromesso, inquinandola in nome del profitto. Si spiega così la protesta dei nativi che addebitano alla miniera le drammatiche condizioni in cui si trovano a vivere, sintetizzate dall’acqua scura che esce dai rubinetti e dai numerosi casi di bambini nati morti. Sebbene anche altre stagioni della serie si svolgessero in ambienti compromessi dall’industrializzazione, mai come in questo caso è forte il richiamo alla difesa del territorio, alla lotta per la conservazione dell’integrità dell’ambiente naturale contro l’industrializzazione selvaggia. E’ anche questo un segno dei tempi: del resto dalla prima stagione della serie sono passati ormai dieci anni e la crisi ambientale si è fatta sempre più tangibile. Lo stesso spirito dei tempi si trova nella scelta di attribuire i ruoli più importanti a personaggi femminili, una femminilità forte, profondamente ancorata ad una sensibilità peculiare e al tema della maternità (quella complessa del rapporto tra Liz e Leah, quella putativa di Liz con Pete, quella traumatica di Liz con Holden, quella genetica che influenza il destino delle sorelle Navarro, quella negata alle donne Inupiaq che hanno perso i figli ancora in fasce). Non è l’unica novità rispetto al passato: la scelta di una stagione più compatta, di soli 6 episodi, consente un’essenzialità narrativa che le stagioni più recenti non avevano.
Il collegamento rispetto al passato, la linea che ancora una volta non viene superata è invece legata all’aggettivo true: oggi come allora, in questa come in tutte le stagioni, i protagonisti sono detective veri, persone che vivono la loro professione con la dedizione e il senso quasi mistico dei protagonisti dei romanzi medievali o dei personaggi di Ermanno Olmi. Certo con prospettive e approcci diversi, con letture del mondo diverse, se non diametralmente opposte. In ogni caso sono veri investigatori perché la loro è una ricerca inesausta della verità: là dove però il taglio dato da Pizzolato era straordinario nel suo lanciarsi verso questioni metafisiche, qui invece la ricerca è tutta centrata sull’aspetto investigativo e i riferimenti a Dio, alla religione, ai fantasmi, alla vita dopo la morte non hanno l’urgenza che avevano per la coppia Cohle/Matthew McConaughey-Hart/Woody Harrelson.
In questo aspetto passa la differenza tra questa stagione (apprezzabile per cinque episodi, salvo il finale deludente soprattutto a livello di scrittura) e la prima stagione della serie (un capolavoro).
TITOLO ORIGINALE: True Detective – Night Country
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 55 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 6
DISTRIBUZIONE STREAMING: Sky
GENERE: Thriller Crime Horror
CONSIGLIATO: diciamolo, il paragone con la prima stagione pesa come un macigno. Per i fan di True Detective più legati all’ambientazione di Nic Pizzolato è meglio lasciar stare. Per gli altri questa è una visione piacevole, con tratti di qualità nella recitazione, nella fotografia e nella musica.
SCONSIGLIATO: oltre che ai puristi di True Detective, la visione è sconsigliata a quanti cercano un prodotto originale. Siamo in un filone codificato e ormai ben definibile: se qualche anno fa poteva ancora sembrare innovativo, ora è ampiamente utilizzato come modello e per di più la stagione è appesantita dall’attenzione ai temi del momento (ambiente, ruolo della donna e critica alla società patriarcale, limiti del capitalismo), senza peraltro alcun elemento innovativo nella loro rappresentazione.
VISIONI PARALLELE: lasciando da parte la prima stagione della serie, un capitolo a parte da tutti i punti di vista, consigliamo la terza stagione, nel complesso più solida della quarta, soprattutto nel finale.
UN’IMMAGINE: il costo dei biscotti Oreo, 20 dollari, rappresenta al meglio le storture di un capitalismo che priva i nativi dell’integrità del loro territorio per dargli in cambio la speranza di ottenere una ricchezza effimera che, a ben vedere, è pure irraggiungibile.
